Storie e avventura in barca a vela del Club e non

Alexia Barrier, è una navigatrice oceanica e con la sua barca, TSE-4myplanet, sta partecipando alla Vendee Globe: il giro del mondo in barca a vela, in solitaria.
La particolarità di questa regata però è che non si fa il giro “comodamente” passando per i canali di Panama e Suez, mantenendosi a latitudini “normali” con venti e temperature “normali”.
No, i ragazzi della Vendee il giro del mondo lo fanno circumnavigando l’Antartide.
Che detto così magari sembra anche una banalità, perciò per rendergli un po’ di giustizia bisogna spendere due parole sul percorso. Perché vi assicuro che tutto è tranne che banale.
I nostri eroi partono dalla Francia, da un posto con un nome da sogno: “ Les Sables d’Olonne”, sulla costa Atlantica Francese; da lì discendono l’Atlantico fino al Sud Africa, doppiano il Capo di Buona Speranza e si dirigono verso l’Australia navigando nei “quaranta ruggenti”. Si chiamano così perché in quella zona di mondo, al di sotto del quarantesimo parallelo, il vento soffia mediamente con un’intensità tale da assomigliare ad un ruggito. Il percorso porta poi a superare Capo della Leonessa (Cape Leeuwin, la punta più a sud dell’Australia) per scendere poi oltre il cinquantesimo parallelo ed entrare nei cosiddetti 50 urlanti: una zona in cui i venti dell’ovest soffiano con intensità ancora maggiore, superando costantemente i 40 nodi. Immaginate che 40 nodi è un vento talmente forte che agli aerei è impedito di decollare; con 40 nodi, secondo la descrizione della scala Beaufort, a terra si hanno “Ramoscelli strappati dagli alberi. Generalmente è impossibile camminare contro vento”: beh, quella che per noi è una condizione estrema, in quella zona è ordinaria amministrazione. Poi ci sono le onde, che in condizioni ordinarie sono di tre-quattro metri: praticamente un autobus a due piani. E poi il freddo. E il pericolo degli iceberg.
E tutto questo accade nelle giornate tranquille. Se c’è brutto tempo è anche peggio. Molto peggio.
Ed è proprio in questo piacevole tratto di mare che in queste ora sta navigando la nostra Alexia, avanzando di 300 miglia al giorno in direzione del Nemo Point.

Il Nemo Point, ad onta del nome, non è un punto vero, è più che altro un concetto; per renderlo comprensibile ai meno avvezzi con le storie di mare spero mi sarà perdonata un’altra breve digressione.
Siete mai stati soli?
Sicuramente soli in casa: distanza dall’essere umano più vicino, non più di venti metri.
Magari soli per strada, di notte con un po’ di angoscia: distanza dall’essere umano più vicino, un centinaio di metri.
Qualcuno si sarà trovato da solo in un bosco, o su una montagna, o in campagna: distanza dall’essere umano più vicino, diciamo 10 km.
Chi di noi ha vissuto proprio la solitudine avrà attraversato un qualche deserto, o landa desolata: distanza dall’essere umano più vicino, esageriamo, 300 km.
Bene, questi ragazzi che attraversano l’oceano, ognuno da solo sulla propria barca per mesi, quando arrivano al Nemo Point raggiungono il punto dell’intero globo più lontano da qualunque pezzo di terraferma: 2688 KM. Da Nemo Point in qualunque direzione si vada, per raggiungere un qualunque pezzo di terraferma (sia esso un’isoletta, o un misero scoglio) bisogna percorrere almeno 2688 Km. Per intenderci, i più avanzati elicotteri in circolazione hanno un raggio d’azione di 800 km.
Paradossalmente chi si trova a Nemo point si trova più vicino agli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale che a qualunque altro essere umano.
Duemilaseicento chilometri di oceano intorno a se significa non solo essere soli sulla propria barca, ma anche parecchio al di fuori di ogni possibilità di soccorso o intervento da parte del mondo esterno.
Soli.
Ma veramente soli.
Su una barca a vela, lontani da tutto e da tutti.
Con un vento che giorno dopo giorno urla tanto forte da non riuscire a sentire altri rumori.
Tra onde alte come autobus, nei giorni buoni
Su un mare tanto freddo che inizia ad esserci il pericolo di Iceberg.

Ed è stato in queste condizioni estreme, in questa solitudine smisurata, che il pomeriggio del 20 dicembre Alexia Barrier si è resa conto di avere un problema. Un grosso problema: la sua barca stava perdendo energia.
Contrariamente a quanto si possa pensare, rimanere senza energia da soli su una barca dalle parti di Nemo Point non è solo un pregiudizio per la gara, o un problema di comodità: è un serio rischio di sopravvivenza.

L’energia infatti serve per i dissalatori per l’acqua potabile; per gli strumenti di bordo, per la meteorologia, per i radar, per le comunicazioni, per le luci, per il riscaldamento interno, e non ultimo per l’indispensabile pilota automatico.
Senza energia insomma non si beve, non si comunica, non si conoscono le previsioni, non si evitano gli iceberg. Ma soprattutto, trovandosi in solitaria, senza pilota automatico non si naviga. In definitiva non si torna a casa.
Con l’aiuto del Team a terra Alexia capisce che il problema deriva dal malfunzionamento dell’idrogeneratore di dritta, che (come quasi tutto a bordo) può essere sostituito. Ma c’è un ma: il pezzo da sostituire è uno dei pochi elementi non raggiungibili dall’interno della barca, con la conseguenza che l’unico modo di sostituire il componente rotto è di calarsi fuori bordo nelle acque gelate.
Cosa che non sarebbe neanche troppo terrificante, se solo si potesse aspettare un momento di mare piatto e senza vento. Ma siamo nei cinquanta urlanti, e il mare qui non è mai piatto. O per lo meno non lo sarà nei prossimi giorni, e Alexia sa bene che è proprio il tempo è quello che le manca. Se aspetta troppo, lentamente la sua barca inizierà a spegnersi, e con lei le sue speranze di tornare a casa.
Le notizie dello staff di terra sono sconfortanti: cambiando radicalmente rotta, e sostanzialmente abbandonando la gara, “dovrebbe” intercettare una bolla di alta pressione al quinto giorno. Il problema è che non ha energia per cinque giorni, riducendo i consumi al minimo dovrebbe durarle per forse tre giorni; il resto dovrà farlo alla cieca, senza strumenti e senza pilota automatico.
Guarda a poppa Alexia, e vede l’immensità dell’oceano, grigia e indifferente, solcata da mostruose onde di più di cinque metri, mentre il vento soffia tanto forte che quasi le impedisce di pensare e le ghiaccia la pelle, e per la prima volta ha paura. Un groppo le serra la gola, forse le scende una lacrima.
Poi una raffica particolarmente intensa fa straorzare lievemente la barca, l’automatico compensa proprio quando stava scendendo dall’onda e TSE-4 parte in una spettacolare planata, con il log che segna la velocità pazzesca di 31 nodi, e il cuore di Alexia sobbalza con una scarica di adrenalina.

E un’idea folle si fa strada nella sua testa.
Non può fermarsi, ma con un po’ meno di vento e un po’ meno di onda potrebbe mantenere TSE su una rotta tale da avere le onde di poppa, con lo scafo sbandato quanto basta per permetterle di lavorare senza essere immersa in acqua.
Corre alla postazione meteo, dove ha conferma che proprio quella notte vento e onda dovrebbero mollare un pò per poi rafforzare nuovamente il mattino successivo: all’alba dovrebbero esserci 25 nodi di vento, onde di “soli” due metri e mezzo (un autobus ad un piano solo) e luce sufficiente per lavorare. Così Alexia comunica allo staff di terra la sua decisione: “Lo faccio domani mattina, al lasco, con la barca in planata”.
Non sappiamo qual è stata la reazione a terra, rispetto a questa idea apparentemente folle.
Nè possiamo sapere come ha passato la notte Alexa, in attesa di quell’alba fatidica.
Sappiamo però che prima di partire aveva postato sul suo profilo una foto con un aforisma:
“La cosa bella della paura è che se le corri incontro, lei scappa via”
Viviamo in tempi in cui i social traboccano di frasi profonde, e inni al coraggio. La maggior parte dei “leoni da tastiera” dopo aver postato l’aforisma del giorno si alza dal divano e si trascina in ciabatte fino al frigorifero.
Alexia invece l’ha fatto veramente, ed è corsa incontro alla sua paura; anzi, ci si è letteralmente buttata dentro.
Sola, nel punto più disperso dell’oceano, con la barca che planava a quindici nodi, ha creato un’imbragatura di sicurezza e si è calata fuori dal bordo sopravvento; con l’acqua gelida che le intorpidiva le mani, la barca che rollava e le onde che la investivano congelandole gambe e piedi, Alexia ha affrontato la paura, ed è riuscita nell’impresa impossibile di sostituire “in corsa” l’idrogeneratore.

Non me ne vogliano la ballerina del circo e l’uomo nerboruto; non se la prendano i campioni dello sport con i muscoli lucidi e lo sguardo da duri.
Da oggi se penso all’eccellenza, a qualcuno talmente fuori scala da essere “troppo” in quello che fa, penso a lei.
Alexia Barrier, la donna che ha messo in fuga la paura.

Più di centomila miglia di navigazione, di cui oltre ventimila in solitario. Basterebbe, ma non basta, per spiegare chi è stato per la vela italiana e internazionale Franco Malingri di Bagnolo, che si è spento ieri notte a Milano. Franco, Francone o l’Ammiraglio come lo descriveva la schiera dei ragazzi che oltre ai suoi tre figli Vittorio, Enrico e Francesco e tanti nipoti, che da lui hanno preso ispirazione, uno fra tutti Giovanni Soldini, per decenni è stato il capo della tribù degli oceanici italiani.

Nato a Torino nel 1934, Franco Malingri iniziò fin da ragazzo a compiere avventure in giro per il mondo, come una traversata dell’Africa con la risalita del Nilo e la discesa del Congo con piccole imbarcazioni, fatta con alcuni suoi compagni scout.

Malingri era un uomo pieno di interessi, curioso, intelligentissimo, un teorico ma anche e soprattutto uno che nelle barche e nelle cose amava “metterci le mani”. Si era laureato in ingegneria, facoltà che gli sarebbe stata utile non solo per la sua carriera di imprenditore ma anche per lo sviluppo di barche, dai famosi Moana, fino ai multiscafi degli anni 2000. Nel 1973 partecipò su CS&RB con il fratello Doi, alla prima Whitbread, la regata in equipaggio attorno al mondo (divenuta Volvo Ocean Race e oggi The Ocean Race, ndr), e nel 1978 portò a termine un giro del mondo insieme alla famiglia e agli amici. Avventura dalla quale ha preso vita anche il libro “Moana”, molto amato dai “vagabondi degli oceani”. Nel suo curriculum anche tre transatlantiche in solitario Ostar, nel 1988, 1992 e 1996 e la collaborazione alla progettazione del Moana 60’ con cui il figlio Vittorio avrebbe preso parte, primo italiano, al Vendée Globe nel 1992.

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Sulla sua barca, un Moana 39’, lui e la moglie Fausta dal 1983 hanno ospitato numerosissimi amici per crociere nei posti più belli del pianeta. E nella loro casa di Milano hanno raccolto un vastissimo archivio di foto, video, ricordi e progetti. Quando, in seguito a problemi di salute, perse l’uso di una gamba, non si perse certo d’animo. Con uno spirito fuori dal comune e delle protesi disegnate da lui stesso, riprese non solo a vivere normalmente ma ad andare in montagna, ad arrampicare, sciare, camminare e portò persino a termine il suo secondo Cammino di Santiago. Negli ultimi anni, si era dedicato anche alla scrittura, con libri di narrativa, spesso ambientati in barca o in un futuro prossimo, prima di essere colpito dalla malattia. Buon vento Franco.

Ciao gruppo : visto che siamo in tema di Coppa America parliamone un po. Certo che di acqua sotto la carena ne è passata. Tutto ha inizio nel Regno Unito, correva l’anno 1851 quando la regina Vittoria decise di lanciare una sfida: girare l’isola di Wight, su un percorso di 58 miglia. Si presentò assieme ad altre barche e vinse lo schooner America, da li prese il nome di Coppa America. Come premio per vincitore fu messa in palio una brocca d’argento, diventerà la coppa delle “100 ghinee” . Un fatto curioso che passò alla storia riportata dalle notizie d’epoca racconta che la regina Vittoria a bordo dello yacht personale posizionato al traguardo aspettando l’arrivo della prima barca chiese: mio capitano qual’è il nome della barca? È lo schooner America mia regina e dietro nessuno. Da quell’anno mai nessuno riuscirà a conquistare quel famoso trofeo. Bisognerà aspettare il 1983 quando l’Australia riuscirà a vincere la coppa. Dai famosi schooner ai non di meno famosi J Class fino ai 12 metri stazza internazionale (20 metri di lunghezza) degli anni 80. Certo che per i nostalgici, per gli irriducibili, accettare le barche volanti di questi giorni è inaccettabile. Comunque bisogna guardare l’evoluzione che anno dopo anno ha cambiato il mondo della vela. E’ come in Formula Uno, il progresso non si arresta. Accettiamolo così com’è. Tifiamo tutti x Lunarossa

Lo Schooner tra cui l’America nacque dall’esigenza di portare velocemente il pescato dai “grandi banchi” a sud est dell’isola di Terranova fino ai mercati di Boston. Chi vi approdava per primo anche a scapito della sicurezza dell’equipaggio si aggiudicava il prezzo migliore. Erano barche di stazza compresa tra le 40 e le 90 tonnellate solide e capienti e sopratutto veloci!

x approfondimenti “Schooner” di Giulio Stagni ed. incontri nautici

Luciano

Belle Poule, fregata di 1° rango classe Surveillante, disegnata dall’ingegnere navale Mathurin-François Boucher.
Fregata detta da 60 (cannoni), fu messa in cantiere nel 1827-28 ma fu varata solo nel 1834: essendo stata costruita in un cantiere navale coperto (il primo nella storia della Marina di Francia), ciò permise ai costruttori di ritardare la costruzione in attesa di circostanze politiche e finanziarie favorevoli.
Ispirata dalle grosse fregate americane (USS Constitution), mise subito in evidenza ottime qualità velico-nautiche.
Dislocava 2500 tonnellate per una lunghezza di 54 metri con una larghezza di poco più di 14 metri ed un puntale di metri 3,80.
Era armata con 32 cannoni lunghi da 30 libbre, 4 obici Paixhans da 80 libbre e 24 carronate da 30 libbre.
Fu dismessa il 19 marzo 1861 ma fino al 1888 era ancora usata per immagazzinare la polvere da sparo.
Divenne famosa per aver riportato le spoglie di Napoleone da Sant’Elena in Francia nel luglio 1840, occasione per la quale fu dipinta tutta di nero ed è lo stato in cui si presenta lo stupendo modello in scala 1:40 che si trova nel Museo della Marina di Parigi, eseguito secondo Boudriot tra il 1825 ed il 1850.

Bernard Moitessier.

Siamo al largo di Città del Capo, al centro del mare, in un pomeriggio soleggiato di Marzo del 1969. Un marinaio al lavoro su un cargo britannico sta distrattamente camminando sul ponte della nave, sicuramente con l’incombenza di svolgere una qualche mansione che, ai fini del nostro racconto, non è interessante riportare.

Con la calma di chi sa di non essere osservato, volge lo sguardo attorno a sé: si avvicina alla fine del ponte, guarda verso il mare aperto con curiosità. Prova a mettere a fuoco due volte, stropicciandosi gli occhi, come fanno i protagonisti dei cartoni animati quando cadono preda di allucinazioni: vicino alla gigantesca nave
sulla quale si trova si è appena affiancata una imbarcazione, per la verità neanche troppo in salute all’apparenza.

Sopra di questa, un uomo con la barba lunghissima appare in posa statuaria verso di lui, a maggior ragione se visto a distanza. Cerca di sforzare le sue capacità ottiche ulteriormente, e quella specie di pazzo trasandato sta effettivamente prendendo la mira verso di lui, verso il cargo, con una fionda. Al veder partire il lancio il marinaio di impulso si accoccola a terra, come si fa per evitare di entrar in contatto con un qualsiasi cosa potenzialmente atto ad offendere: che sia un sasso, che sia un proiettile, che sia un piombino.

A pochi metri da lui, invece, atterra un fagotto che a primissima vista sembra contenere un messaggio. Una comunicazione lanciata da quel pazzo, che adesso ha ripreso ad occuparsi delle sue cose di navigazione, ignorando la presenza del cargo, come se quel gigante ammasso di lamiera fosse sparito dal mare.
“Continuo senza scalo verso le isole del Pacifico perché sono felice in mare, e forse anche per salvare la mia anima” recita il messaggio firmato Bernard Moitessier.

Il marinaio sussulta per un attimo a leggere quel nome, e prontamente torna ad osservare il barbuto personaggio che, nel frattempo ha ripreso vento e velocità con la sua umilissima imbarcazione: quello è Bernard Moitessier, l’uomo in testa al Golden Globe Race, quella competizione partita da Plymouth quasi un anno prima, che prevedeva la circumnavigazione del globo in solitaria e senza scalo.
Inutile dire che, una volta trasmesso, quel messaggio del navigatore di origini francesi fece immediatamente il giro del mondo, ancor prima che lui completasse la manovra di tornare sui suoi passi, cambiando di direzione.

Pur senza giungere al traguardo, Bernard Moitessier completò ben più di un giro del globo senza scalo, attraccando a Tahiti qualche tempo dopo, perdendo così la leadership del gruppo in corsa e regalando di fatto le 5000 sterline di premio a Sir. Robin Knox-Johnson.
Ma per lui, ricordato da tutti come uno dei più grandi navigatori in solitaria di sempre, il mare era qualcosa di più di uno sfondo dove attuare una passione profonda. Per lui il mare era cura, era terapia, era comunione dei sensi, era pace interiore. Anche in mezzo alle tempeste, anche nelle difficoltà, anche con i
suoi pericoli e con la solitudine che porta con sé.

Moitessier quel giorno rifiutò la gloria di un’impresa riconosciuta, il denaro di una vittoria meritata, il completamento di quasi un anno di sacrifici, abbracciando la leggenda di chi – per salvare la sua anima – completò un giro e mezzo del globo senza scalo ed in solitaria, prima di fermarsi a riposare un po’ la mente.
A ricaricare le pile. A sconfiggere i propri demoni.

Bernard Moitessier nasce ad Hanoi (capitale del Vietnam), nel 1925. Figlio di genitori francesi, passa l’infanzia ipnotizzato dalla navigazione, costruendo piccole imbarcazioni a vele e sfidando pericoli già sufficientemente grandi per la sua età.
Nel 1947, violentemente attratto dal mare e dalla voglia di fuggire per conoscere il mondo, costruisce una piccola giunca e inizia a vagabondare per il golfo del Siam: abbandona il lavoro nell’azienda familiare, lasciandosi dietro tutto per rincorrere un desiderio di libertà già completamente chiarito nella sua mente.
Nel 1952 naufraga nelle Isole Chagos dopo aver sfidato in solitaria il Monsone dell’Oceano Indiano. Giunge così alle Mauritius senza un soldo e senza nessuna possibilità di rimettere in sesto la propria imbarcazione, cercando di sopravvivere al meglio che poteva, occupandosi di differenti lavori e vivendo sostanzialmente alla giornata.

Dopo aver praticato pesca subacquea, riesce ad ottenere un incarico da parte del Console Francese, sufficiente per poter iniziare a risparmiare i denari necessari da costruire la sua Marie Therese II (la prima era rimasta incagliata al suo arrivo in quelle terre), risalendo l’Atlantico, fermandosi in Sudafrica, prima di
naufragar nuovamente a causa di un suo colpo di sonno durante la conduzione.
I suoi diari di bordo si impreziosiscono di terminologie e soprattutto riflessioni, grazie all’avida lettura di poeti e scrittori come Charles Baudelaire, Antoine de Saint-Exupéry e Alberto Moravia, diventando progressivamente raccolta dei suoi pensieri personali, della sua filosofia di vita, della sua continua ricerca di un quid che potremo riassumere con la parola “libertà di anima”. Una ricerca ossessiva, che unita alla passione per la scrittura, lo renderà anche narratore leggendario delle proprie avventure: testimoniando eventi e dettagli capaci di far innamorare della navigazione gran parte dei suoi lettori futuri.

Dopo il secondo fallimento personale, si imbarca come mozzo in una nave mercantile che lo porterà per la prima volta nella terra natale dei suoi genitori, quella Francia dove decide di reinventarsi lavorando stabilmente, combattendo la depressione derivata dalla distanza dal mare ed il peso per i suoi sogni irrealizzati. In realtà Bernard cova dentro di sé il desiderio di costruire una barca in acciaio dove poter circumnavigare il globo, vivendo in mare: faticando, lavorando e risparmiando riesce così a dare alla luce Joshua, un’imbarcazione con la quale vivrà un rapporto morboso, umanizzato, profondo.

Malgrado tutto, riesce anche ad innamorarsi (e sposarsi) con Francoise de Cazalet, donna già madre di tre figli, che pensa bene di trascinar con sé in un viaggio incredibile, con l’evidente scusa del viaggio di nozze: i due navigano fino alla Polinesia, vivendo momenti epici durante il ritorno, in una traversata di 14.000 miglia senza scalo.
Da Tahiti fino ad Alicante passando per Capo Horn, alternandosi al timone ed affrontando una tempesta tremenda per la durata di sei giorni, una di quelle nel mezzo alle quali sembra impossibile riuscire a cavarne le penne, sconfiggendo onde di oltre 12 metri di altezza. Il racconto di questa avventura è racchiuso nel libro “Capo Horn alla vela”, scritto febbrilmente una volta tornato sulla terra ferma, con i piedi ben saldi ma la mente già capace di sognare la prossima impresa: quel viaggio intorno al mondo, possibilmente in solitaria, passando Capo Horn, Capo Leeuwin ed il Capo di Buona Speranza. Qualcosa di ben più dei 126 incredibili giorni in mare passati con la sua amata Francoise.

E l’occasione di presenta casualmente in modo ufficiale, sotto forma di competizione, per la quale il premio previsto sono 5.000 sterline al primo classificato. Nel 1968, infatti, uno dei principali giornali del Regno Unito, il Sunday Times, decide di organizzare la prima vera regata attorno al globo, ispirata dall’impresa di Sir Francis Charles Chichester ,che due anni prima aveva completato la circumnavigazione del globo con un solo scalo tecnico, in quel di Sidney.
Stavolta, però, le soste non sarebbero state ammesse: il passaggio in solitaria per i tre capi sarebbe dovuto svolgersi con partenza da Plymouth in Inghilterra, senza la concessione di nessuno scalo tecnico, in totale autosufficienza.
Moitessier – che aveva passato l’anno precedente a modificare ed attrezzare la sua Joshua per sostenere un viaggio simile – vacillò a lungo rispetto all’accettare o meno la sfida, temendo che la struttura competitiva avrebbe totalmente declassato l’impresa. Ma la posta in palio era comunque alta, e poteva coincidere con la realizzazione di un sogno che considerava la prova massima da superare per sé stesso: sarebbero stati lui e Joshua contro il mare e contro i loro limiti, e questo lo aveva già messo in conto.

Pensare di aggiungere alla lista degli avversari anche altri nove navigatori non mutò di troppo la sua percezione verso il tutto. Avrebbe partecipato alla Golden Globe Race organizzata dal Sunday Times per sé stesso, non certo per una gloria mediatica mondiale. Non ne aveva bisogno.
Tuttavia Bernard Moitessier raggiunse la testa della competizione in modo piuttosto rapido e naturale. Quel Sir Robin Knox-Johnson che guidava la competizione venne superato, pur essendo partito con un mese di anticipo e, con tutto il mondo che seguiva la cavalcata di Moitessier verso la vittoria ed il rientro in Gran Bretagna, la sua convinzione nel portare a termine la tanto desiderata impresa, vacillò definitivamente.

Fu così che decise di ritirarsi dalla Golden Globe Race, lanciando il famoso messaggio su quel cargo Britannico praticamente affiancato, facendo dietro front e proseguendo navigando in solitudine e senza sosta.
Knox vinse la competizione portandosi a casa il premio e scrivendo il suo nome nella storia, ma Bernard Moitessier tornò sui suoi passi dopo aver sostanzialmente completato il giro del globo, quasi giunto al traguardo. Proseguì per un’altra metà, completando praticamente un giro e mezzo, stavolta in cerca di sé stesso, con la sola compagnia della sua fedele Joshua.

Era partito da Plymouth il 22 Agosto del 1968 e giunse nuovamente a Tahiti il 21 Giugno del 1969, dopo aver percorso 37.455 miglia (69.367 km), con l’intento di “salvare la sua anima”. La sua vita sarebbe definitivamente cambiata con quella decisione, o quantomeno avrebbe virato in una direzione definitivamente leggendaria, considerando che il racconto di questa incredibile avventura sarebbe divenuto il suo libro più letto, “La Lunga Rotta”, responsabile di innamoramenti per il mare e per la navigazione di intere generazioni future.
Bernard Moitessier era un vagabondo dei mari, privo di qualsiasi tipo di timore relativo alle distanze, alle condizioni atmosferiche, alla solitudine. Un uomo che desiderava mettere alla prova sé stesso sfidando il destino e la natura, forte solo delle sue possibilità e delle sue potenzialità. Con la sola forza d’animo come alleata, con quel fuoco agonistico che ritroviamo nelle storie dei più grandi atleti di tutti gli sport, seppur in questo caso si trattasse di competizione contro qualcosa di più grande, di complicato da sfidare, come la propria anima.

Joshua venne sorpreso da un improvviso ciclone mentre era ormeggiato di fronte alla costa messicana, durante un periodo passato in California da Moitessier: si arenò sulla spiaggia praticamente distrutto, ed il suo fedele amico, nonché costruttore, non aveva le possibilità economiche per ridargli vita. Decise di regalarlo a due sconosciuti, che lo aiutarono nel liberarla dalla sabbia che ne aveva invaso la struttura. Oggi si trova ristrutturato ed esposto nel Museo Navale de La Rochelle, in una piazza che ha preso il nome proprio di Bernard Moitessier.

Venne sostituito negli anni da un’altra barca, Tamata, con la quale Bernard proseguì vagabondando per i mari e scappando da una fama che lo aveva già eletto a leggenda, molto tempo prima che fosse costretto dalla vita ad andarsene. Divenne fermo sostenitore del disarmo nucleare, appoggiando battaglie ecologiste e proseguendo a sfidare giganteschi mulini a vento come se fosse un Don Chisciotte profondamente visionario, ma concreto nell’effettiva capacita di raggiungere sempre la meta prefissata. Nel riuscire a vincere a più riprese la sfida con il suo lato oscuro, proiettato in quel mare con il quale aveva convissuto fino alla fine.
Nel 1989, però, dovette inchinarsi all’inevitabile, definito da lui “la Bestia”: un cancro alla prostata che, seppur non troppo rapidamente, iniziò a divorarlo dall’interno, decretando una dipartita che avvenne stavolta a Parigi il 16 Giugno del 1994.

Le sue riflessioni, i suoi racconti, le sue parole sapientemente trascritte in una serie di opere letterarie di estrema diffusione e successo, sono riuscite a tramandare l’essenza interiore di un uomo comunque schivo, capace di superare limiti a tratti neanche disegnabili, per sola ed unica sfida con sé stesso.
La domanda che sorge spontanea rileggendone le gesta è se sia da considerarsi più un grande navigatore o un grande scrittore, ma all’apparenza si tratta di una questione inutile. Anche perché le due cose hanno strettamente contribuito a costruire una leggenda unica, destinata a resistere per sempre. Una leggenda
per la quale, forse, è lecito ricordare Bernard Moitessier come il più grande navigatore di tutti i tempi, riuscendo così anche – ed in conclusione – a rispondere a questo quesito conclusivo.