UNA MAGIA A PICCO SUL LAGO: L’EREMO DI SANTO CATERINA DEL SASSO – LEGGIUNO (VA)

Nel comune di Leggiuno, in provincia di Varese, a strapiombo sulla sponda orientale del Lago Maggiore, sorge l’Eremo di Santa Caterina del Sasso.
Abbarbicato ad una parete rocciosa l’Eremo è senza dubbi uno tra gli scenari più suggestivi del Lago Maggiore.
Difficile dire qualcosa che non sia già stato detto sull’Eremo di Santa Caterina, su questo posto che ha già di per sé, per come è stato costruito e per le vicende che ha conosciuto, qualcosa di sacro.
La roccia entro cui è incastonata l’intera struttura pende letteralmente sulle teste dei visitatori. E’ un calcare bianco che si riflette nel lago amplificando l’effetto aureola dell’insieme. Arrivando dal lago, in barca, non sembra vero di trovare una chiesa di forme così armoniose sospesa tra la roccia e l’acqua.
L’impressione che si ha entrando in questo posto è di stare fuori dal mondo, di essere in un posto sperduto dove regna il silenzio.
La storia dell’eremo di Santa Caterina del Sasso è piuttosto affascinante, perché legata ad una leggenda che si perde nei secoli.
Secondo una leggenda, infatti, nel XII secolo, Alberto Besozzi, ricco usuraio e mercante di origine milanese, fu sorpreso da una terribile tempesta mentre si trovava, per lavoro, in barca sul lago Maggiore. In quei drammatici frangenti, sentendosi perduto, invocò l’aiuto di santa Caterina d’Alessandria, di cui era devoto. La grazia gli fu concessa.
Se fosse morto, quell’uomo avrebbe molto probabilmente trascorso l’eternità all’inferno. Invece, in seguito all’evento prodigioso, decise di cambiar vita per poter andare in Paradiso. E così si fece eremita in quest’angolo che del Paradiso sembra un anticipo.
Accanto alla grotta in cui viveva fece costruire una cappellina, di fianco alla quale è visibile ancora oggi il corpo del Besozzi, che venne fatto beato. Attualmente la cappellina è inglobata nelle bellissime strutture che tra il XIII e il XVII secolo furono edificate in questo luogo dagli abitanti della zona e da varie comunità di religiosi: domenicani, agostiniani, carmelitani e benedettini, tra gli altri.
Fatto grave è stato il tentativo di trafugamento delle spoglie del Beato Alberto, dal suo sacello, episodio che si svolse all’inizio degli anni settanta, quando Santa Caterina, ancora di proprietà della Curia di Milano, era già chiusa per i problemi strutturali dell’edificio. Le spoglie, fra cui il teschio, vennero ritrovati fuori dalla porta d’ingresso dell’Eremo. Recuperate, vennero poi portate e custodite provvisoriamente nella chiesa parrocchiale di Leggiuno. Una volta completati i lavori dei primi restauri, vennero con una processione ricollocate all’interno del Santuario, dove si trovano ancora oggi custodite.
Nel 1640, accadde un altro fatto straordinario: cinque giganteschi massi precipitarono dallo strapiombo roccioso sfondando la volta della cappella in cui giaceva il corpo del Besozzi. Ma non riuscirono a distruggere la tomba di quell’eremita che la popolazione aveva proclamato beato subito dopo la morte.
Di questo fatto è testimonianza il grande buco aperto nel soffitto della chiesa, proprio al di sopra delle spoglie di Alberto Besozzi, che venne deciso di non richiudere proprio per omaggiare il miracolo ricevuto. I sassi ‘ballerini’ che ricoprivano l’area sopra la chiesa contribuirono a dare il nome all’eremo, che per esteso è “l’eremo di Santa Caterina del Sasso Ballaro“.
Visitando il santuario si incontreranno tre edifici che compongono l’intera struttura: il convento meridionale, il conventino e in ultimo la chiesa che ha al suo interno il corpo del Besozzi e la cappella di Santa Caterina.
Il convento meridionale venne eretto nel 1300 e successivamente ristrutturato nel 1624 dal priore Giulio Cesare Martignoni dopo che parte della vecchia struttura in legno crollò nel lago: ad esso si accede attraverso un porticato ad archi ribassati sorretti da slanciate colonne in granito.
Il conventino, situato di fronte al cortile del torchio, trasformato sulle mura dell’antico dormitorio invernale degli eremiti del secolo XIII, è impreziosito da un porticato con archi gotici che custodisce la storica danza macabra.
Il cortile più interno dell’edificio si apre sulla chiesa, il cui portico cinquecentesco di sapore rinascimentale è solo la parte superstite di una struttura più ampia perduta. La facciata, scandita da piccole finestre, conserva ancora le tracce di affreschi con il martirio di S. Cateriana d’Alessandria. Il Campanile, posto a strapiombo sul lago, faceva parte della chiesa di S. Nicolao, costruita all’inizio del 1300. Caratteristica è la cella campanaria con l’armonica bifora in pietra di Angera.
La chiesa è il Cuore artistico e spirituale dell’Eremo. Un edificio a tre navate che nel 1585 ha conglobato in sé in un unico edificio le antiche cappelle del monastero.
Dal 1970 l’Eremo è proprietà della Provincia di Varese. Dal 1986 al 1996 è stato retto da una comunità domenicana, sino al 2018 dagli oblati benedettini;
dalla primavera 2019 la gestione religiosa dell’Eremo è affidata alla Fraternità Francescana di Betania.
L’Eremo di Santa Caterina del Sasso, seppur mai direttamente nominato, compare nelle riprese del film di Dino Risi – “La stanza del vescovo” – (1977); fu inoltre utilizzato dallo sceneggiato televisivo di Salvatore Nocita – “I promessi sposi” – (1989) come convento di Fra Cristoforo, pur non avendo in realtà, alcun legame reale con il romanzo manzoniano.
È possibile raggiungere l’eremo di Santa Caterina del Sasso in due modi, via terra o via lago.
Via terra si arriva ad un grande piazzale sovrastante l’eremo e lasciare l’automobile nei parcheggi preposti. Da qui, attraverso la scalinata di 268 gradini si raggiunge l’ingresso dell’eremo. Si tratta di una discesa molto piacevole, perché immersa nel verde delle piante cresciute ai fianchi degli scalini. In alternativa si può optare per il moderno ascensore scavato all’interno della roccia che rende effettivamente accessibile a tutti l’ingresso all’eremo dal 2010.
L’accesso via lago è sicuramente quello più suggestivo e quello per cui optiamo noi. Un piccolissimo porticciolo offre l’attracco al traghetto che porta continuamente turisti che sbarcano qui appositamente per visitare l’eremo di Santa Caterina del Sasso. Già arrivando è possibile vedere chiaramente gli edifici che compongono l’eremo, immersi tra roccia e natura verdeggiante. Una volta scesi dal traghetto, si prende la scalinata di circa 80 gradini e si arriva ad un bivio dove prendendo a destra si arriva all’ascensore scavato nella roccia che scende da Quicchio e che è corredato da diverse foto che testimoniano la sua costruzione, mentre prendendo a sinistra si arriva all’ingresso del santuario.
Attualmente l’Eremo è chiuso per lavori in corso
Per quando sarà possibile visitarlo di nuovo, qui potete trovare tutte le info su orari, costi d’ingresso, parcheggi e battelli: http://www.santacaterinadelsasso.com/

Alexia Barrier, è una navigatrice oceanica e con la sua barca, TSE-4myplanet, sta partecipando alla Vendee Globe: il giro del mondo in barca a vela, in solitaria.
La particolarità di questa regata però è che non si fa il giro “comodamente” passando per i canali di Panama e Suez, mantenendosi a latitudini “normali” con venti e temperature “normali”.
No, i ragazzi della Vendee il giro del mondo lo fanno circumnavigando l’Antartide.
Che detto così magari sembra anche una banalità, perciò per rendergli un po’ di giustizia bisogna spendere due parole sul percorso. Perché vi assicuro che tutto è tranne che banale.
I nostri eroi partono dalla Francia, da un posto con un nome da sogno: “ Les Sables d’Olonne”, sulla costa Atlantica Francese; da lì discendono l’Atlantico fino al Sud Africa, doppiano il Capo di Buona Speranza e si dirigono verso l’Australia navigando nei “quaranta ruggenti”. Si chiamano così perché in quella zona di mondo, al di sotto del quarantesimo parallelo, il vento soffia mediamente con un’intensità tale da assomigliare ad un ruggito. Il percorso porta poi a superare Capo della Leonessa (Cape Leeuwin, la punta più a sud dell’Australia) per scendere poi oltre il cinquantesimo parallelo ed entrare nei cosiddetti 50 urlanti: una zona in cui i venti dell’ovest soffiano con intensità ancora maggiore, superando costantemente i 40 nodi. Immaginate che 40 nodi è un vento talmente forte che agli aerei è impedito di decollare; con 40 nodi, secondo la descrizione della scala Beaufort, a terra si hanno “Ramoscelli strappati dagli alberi. Generalmente è impossibile camminare contro vento”: beh, quella che per noi è una condizione estrema, in quella zona è ordinaria amministrazione. Poi ci sono le onde, che in condizioni ordinarie sono di tre-quattro metri: praticamente un autobus a due piani. E poi il freddo. E il pericolo degli iceberg.
E tutto questo accade nelle giornate tranquille. Se c’è brutto tempo è anche peggio. Molto peggio.
Ed è proprio in questo piacevole tratto di mare che in queste ora sta navigando la nostra Alexia, avanzando di 300 miglia al giorno in direzione del Nemo Point.

Il Nemo Point, ad onta del nome, non è un punto vero, è più che altro un concetto; per renderlo comprensibile ai meno avvezzi con le storie di mare spero mi sarà perdonata un’altra breve digressione.
Siete mai stati soli?
Sicuramente soli in casa: distanza dall’essere umano più vicino, non più di venti metri.
Magari soli per strada, di notte con un po’ di angoscia: distanza dall’essere umano più vicino, un centinaio di metri.
Qualcuno si sarà trovato da solo in un bosco, o su una montagna, o in campagna: distanza dall’essere umano più vicino, diciamo 10 km.
Chi di noi ha vissuto proprio la solitudine avrà attraversato un qualche deserto, o landa desolata: distanza dall’essere umano più vicino, esageriamo, 300 km.
Bene, questi ragazzi che attraversano l’oceano, ognuno da solo sulla propria barca per mesi, quando arrivano al Nemo Point raggiungono il punto dell’intero globo più lontano da qualunque pezzo di terraferma: 2688 KM. Da Nemo Point in qualunque direzione si vada, per raggiungere un qualunque pezzo di terraferma (sia esso un’isoletta, o un misero scoglio) bisogna percorrere almeno 2688 Km. Per intenderci, i più avanzati elicotteri in circolazione hanno un raggio d’azione di 800 km.
Paradossalmente chi si trova a Nemo point si trova più vicino agli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale che a qualunque altro essere umano.
Duemilaseicento chilometri di oceano intorno a se significa non solo essere soli sulla propria barca, ma anche parecchio al di fuori di ogni possibilità di soccorso o intervento da parte del mondo esterno.
Soli.
Ma veramente soli.
Su una barca a vela, lontani da tutto e da tutti.
Con un vento che giorno dopo giorno urla tanto forte da non riuscire a sentire altri rumori.
Tra onde alte come autobus, nei giorni buoni
Su un mare tanto freddo che inizia ad esserci il pericolo di Iceberg.

Ed è stato in queste condizioni estreme, in questa solitudine smisurata, che il pomeriggio del 20 dicembre Alexia Barrier si è resa conto di avere un problema. Un grosso problema: la sua barca stava perdendo energia.
Contrariamente a quanto si possa pensare, rimanere senza energia da soli su una barca dalle parti di Nemo Point non è solo un pregiudizio per la gara, o un problema di comodità: è un serio rischio di sopravvivenza.

L’energia infatti serve per i dissalatori per l’acqua potabile; per gli strumenti di bordo, per la meteorologia, per i radar, per le comunicazioni, per le luci, per il riscaldamento interno, e non ultimo per l’indispensabile pilota automatico.
Senza energia insomma non si beve, non si comunica, non si conoscono le previsioni, non si evitano gli iceberg. Ma soprattutto, trovandosi in solitaria, senza pilota automatico non si naviga. In definitiva non si torna a casa.
Con l’aiuto del Team a terra Alexia capisce che il problema deriva dal malfunzionamento dell’idrogeneratore di dritta, che (come quasi tutto a bordo) può essere sostituito. Ma c’è un ma: il pezzo da sostituire è uno dei pochi elementi non raggiungibili dall’interno della barca, con la conseguenza che l’unico modo di sostituire il componente rotto è di calarsi fuori bordo nelle acque gelate.
Cosa che non sarebbe neanche troppo terrificante, se solo si potesse aspettare un momento di mare piatto e senza vento. Ma siamo nei cinquanta urlanti, e il mare qui non è mai piatto. O per lo meno non lo sarà nei prossimi giorni, e Alexia sa bene che è proprio il tempo è quello che le manca. Se aspetta troppo, lentamente la sua barca inizierà a spegnersi, e con lei le sue speranze di tornare a casa.
Le notizie dello staff di terra sono sconfortanti: cambiando radicalmente rotta, e sostanzialmente abbandonando la gara, “dovrebbe” intercettare una bolla di alta pressione al quinto giorno. Il problema è che non ha energia per cinque giorni, riducendo i consumi al minimo dovrebbe durarle per forse tre giorni; il resto dovrà farlo alla cieca, senza strumenti e senza pilota automatico.
Guarda a poppa Alexia, e vede l’immensità dell’oceano, grigia e indifferente, solcata da mostruose onde di più di cinque metri, mentre il vento soffia tanto forte che quasi le impedisce di pensare e le ghiaccia la pelle, e per la prima volta ha paura. Un groppo le serra la gola, forse le scende una lacrima.
Poi una raffica particolarmente intensa fa straorzare lievemente la barca, l’automatico compensa proprio quando stava scendendo dall’onda e TSE-4 parte in una spettacolare planata, con il log che segna la velocità pazzesca di 31 nodi, e il cuore di Alexia sobbalza con una scarica di adrenalina.

E un’idea folle si fa strada nella sua testa.
Non può fermarsi, ma con un po’ meno di vento e un po’ meno di onda potrebbe mantenere TSE su una rotta tale da avere le onde di poppa, con lo scafo sbandato quanto basta per permetterle di lavorare senza essere immersa in acqua.
Corre alla postazione meteo, dove ha conferma che proprio quella notte vento e onda dovrebbero mollare un pò per poi rafforzare nuovamente il mattino successivo: all’alba dovrebbero esserci 25 nodi di vento, onde di “soli” due metri e mezzo (un autobus ad un piano solo) e luce sufficiente per lavorare. Così Alexia comunica allo staff di terra la sua decisione: “Lo faccio domani mattina, al lasco, con la barca in planata”.
Non sappiamo qual è stata la reazione a terra, rispetto a questa idea apparentemente folle.
Nè possiamo sapere come ha passato la notte Alexa, in attesa di quell’alba fatidica.
Sappiamo però che prima di partire aveva postato sul suo profilo una foto con un aforisma:
“La cosa bella della paura è che se le corri incontro, lei scappa via”
Viviamo in tempi in cui i social traboccano di frasi profonde, e inni al coraggio. La maggior parte dei “leoni da tastiera” dopo aver postato l’aforisma del giorno si alza dal divano e si trascina in ciabatte fino al frigorifero.
Alexia invece l’ha fatto veramente, ed è corsa incontro alla sua paura; anzi, ci si è letteralmente buttata dentro.
Sola, nel punto più disperso dell’oceano, con la barca che planava a quindici nodi, ha creato un’imbragatura di sicurezza e si è calata fuori dal bordo sopravvento; con l’acqua gelida che le intorpidiva le mani, la barca che rollava e le onde che la investivano congelandole gambe e piedi, Alexia ha affrontato la paura, ed è riuscita nell’impresa impossibile di sostituire “in corsa” l’idrogeneratore.

Non me ne vogliano la ballerina del circo e l’uomo nerboruto; non se la prendano i campioni dello sport con i muscoli lucidi e lo sguardo da duri.
Da oggi se penso all’eccellenza, a qualcuno talmente fuori scala da essere “troppo” in quello che fa, penso a lei.
Alexia Barrier, la donna che ha messo in fuga la paura.

Il GIRO DI CHIGLIA era una punizione terribile, in uso nella marineria fino al XIX secolo, ai danni di chi commetteva reati gravissimi.

Il marinaio punito veniva legato con una fune, gettato in mare con un peso che doveva trattenerlo sott’acqua e trascinato sotto la chiglia da un alto all’altro della nave o per tutta la sua lunghezza. Le vittime venivano quindi appese al pennone come monito per tutto l’equipaggio.

Spesso si traduceva in una condanna a morte per il lungo tempo in cui rimaneva sott’acqua e le ferite che si procurava strusciando contro i DENTI DI CANE dello scafo, che talvolta attiravano anche i predatori marini.

La prima citazione di questa tortura risalirebbe alla LEX RHODIA, circa VIII sec a.C., che la prevedeva per gli atti di pirateria, ma nel Medioevo la pratica sarebbe stata adottata da diverse Marine europee e nordafricane.

L’episodio più recente sarebbe avvenuto ad Alessandria nel 1882 ai danni di due marinai egiziani.

Buon vento
Andrea Mucedola

tratto dal sito di Ocean 4 Future

In gergo marinaresco SCIORINARE significa “stendere all’aria aperta” e si può riferire sia alla biancheria da letto, sia al vestiario che alle vele.

In genere si faceva ogni due settimane, approfittando del tempo soleggiato e asciutto delle giornate di TRAMONTANA, per dare aria a vestiti, lenzuola, coperte e materasso esponendoli al sole per alcune ore; ad esso era in genere associato un posto di LAVAGGIO più approfondito del dormitorio per assicurare una maggiore igiene a bordo.

Per le VELE veniva fatto per asciugarle dopo la pioggia, in modo da evitare marcescenze della tela OLONA.

Nella marineria velica con il termine BRANDA si indicava non un letto ma una sorta di AMACA, un telo appeso tra due montanti o ganci che permetteva così di seguire il ROLLIO della nave e soffrire meno il mare mosso; inoltre, lo stesso locale poteva essere destinato ad altre attività durante il giorno.

Fino al 1943 la BRANDA era personale e seguiva il militare durante tutto il suo servizio a bordo e in caserma. Una volta “ROLLATA” veniva riposta nei BASTINGAGGI e in emergenza poteva essere utilizzata come galleggiante per parecchie ore.

Dopo la seconda guerra mondiale le nuove navi adottarono LETTINI fissi, che mantennero il nome di BRANDE, mentre le AMACHE rimasero solo sulle navi più vecchie e su quelle più piccole. Oggi sono impiegate solo su nave VESPUCCI.

Buon vento

Ciao gruppo : oggi volevo parlare di sfortuna a bordo. Da che mondo è mondo la vita del marinaio è sempre stata perseguitata da sfortuna, paure ed eventi catastrofici. Soprattutto nell’epoca degli antichi velieri. Navigare nell’ignoto, nel mondo sconosciuto delle scoperte geografiche. Caratterizzato da mostri marini, piovre giganti, tempeste e racconti spaventosi. Quella più terribile e temibile era la maledizione dei fuochi di Sant’Elmo. Terrore vedendo alle estremità di alberi e pennoni scariche di lampi e fuochi. In realtà non sono nient’altro che scariche elettrostatiche elettroluminescenti provocate dalla ionizzazione dell’aria durante un temporale, all’interno di un forte campo elettrico, che tutt’ora possono generarsi.

Nel nostro piccolo mondo di velisti della domenica e non ci tramandiamo superstizioni e riti scaramantici, ci sono cose che, chi più chi meno si credono. Una cosa che porta sfortuna è il colore verde, mai indossare un indumento di quel colore,

Ma come mai un colore diffuso come il verde dovrebbe essere di cattivo auspicio in mare?

Come per tutte la vecchie credenze, risalire ad un’ origine certa è quasi impossibile e le ipotesi più accreditate sono due:

Secondo la prima teoria il verde porta sfortuna in barca poiché un tempo gli ufficiali di Marina che morivano, venivano bendati e portati a casa solo dopo molto tempo, quindi ammuffiti, cioè ricoperti di muffa verde. Per l’altra versione invece, questo era il colore della muffa o dell’ossido che si poteva formare sul legno o sul metallo delle navi, materiali con cui venivano costruite tutte le parti, scafo e albero incluso. Inutile spiegare quanto potesse essere rischioso scoprirne delle tracce in navigazione, magari ben lontani dalla costa.

Altra cosa non portare l’ombrello a bordo, non si deve fare.

Mai pronunciare o portare un coniglio in barca, si diceva che rosicchiando le tavole della nave la mandava a fondo è una credenza che riguarda più che altro le barche francesi. Quando le navi partivano per lunghe traversate imbarcavano una grande quantità di viveri, tra cui anche animali vivi (volatili, maiali e i famosi conigli). Il problema con i conigli è che, essendo roditori, avevano il bellissimo vizio di sgranocchiare le loro gabbie di vimini, per poi passare allo scafo e alla canapa del cordame.

Per salire in barca si mette prima il piede sinistro.

Non si deve fischiare è proibito.Fin dall’antichità era ritenuto che fischiare a bordo potesse far nascere tempeste e attirare il diavolo. Se un marinaio si metteva a fischiare, questo significava che voleva misurarsi con il vento, sfidandolo a duello.
Ma la cosa più importante è di non cambiare mai il nome alla propria barca se la si compra usata, per poterlo cambiare bisogna fare dei riti scaramantici, chi dice che durante la navigazione bisogna tornare indietro e tagliare la rotta x 7 volte, chi dice che bisogna conservare la targa con il vecchio nome nascosta in barca, altro gesto è di mettere una monetina sotto il piede d’albero, nella scassa,ma la cosa più efficace sarebbe quella di attraversare l’equatore (chi lo può fare) con una Vergine maggiorenne…questo però è più difficile!!

La bottiglia che non si rompe durante il varo :

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La tradizione di varare una nave è incredibilmente antica. Inizialmente il rito prevedeva il sacrificio di un animale, il cui sangue veniva sparso sulla prua della nave, per attirare su di essa il favore degli dei ed evitare così tempeste, avarie e mostri marini.

Nelle epoche seguenti il sangue è stato via via sostituito con il vino e, più recentemente, con lo champagne, bevanda tradizionalmente associata al buonumore e alla fortuna. Attualmente, durante il varo di una barca, il padrino o la madrina devono rompere la bottiglia di champagne a prua o sulla chiglia. È di fondamentale importanza che essa si spacchi al primo colpo, altrimenti la barca sarà costretta a subire una vita piena di sventure e disgrazie.

Nel 1986 sta per essere varata la barca italiana per la Coppa America dal nome Italia. La madrina lancia la bottiglia sul dritto di prua, ma non si rompe. Panico, ci riprova e non si rompe di nuovo. Aiutata da un marinaio viene lanciata per la terza volta e finalmente questa volta si infrange sulla prua in mille pezzi di vetro, a tal punto da ferire superficialmente la madrina.

La barca viene varata, ma la mattina dopo la ritrovano mezza affondata. Ma anche il proseguo della carriera di Italia è costellato da sfighe. Partecipa alle selezioni della Coppa America ma va malissimo e quasi tutto l’equipaggio si sbarca. Il principale sponsor, l’industriale della moda Maurizio Gucci ha gravi traversie economiche e personali, sino alla sua uccisione ad opera della sua ex moglie.

Salpare di venerdì

Le origini di questa superstizione marinara potrebbero essere da cercare nelle credenze religiose. Nella tradizione cristiana, infatti, il venerdì è spesso indicato come giorno di avvenimento di fatti nefasti (come la crocifissione di Cristo e la tentazione di Adamo ed Eva da parte del diavolo).

Secondo un altra ipotesi la credenza è legata al fatto che spesso i marinai venivano pagati di giovedì. Il giorno dopo, appunto venerdì, molto di essi si erano “bevuti” gran parte della loro paga e tornavano a bordo ubriachi, quindi partire quel giorno avrebbe significato un numero di incidenti molto alto.

Banane a bordo

superstizioni marinare

Mai portare banane a bordo! Per qualcuno è una mera superstizione marinara senza senso, per altri una regola da rispettare in ogni circostanza. Alcuni capitani, soprattutto alle isole Hawaii, arrivano persino a vietare sulle proprie imbarcazioni cibi e altri prodotti a base di banana.

L’origine di questa credenza potrebbe essere nel fatto che le banane andate a male producono gas metano, altamente tossico, oppure possono nascondere ragni o insetti velenosi. O ancora il personale di bordo potrebbe incautamente scivolare su qualche buccia.


Ultimo consiglio : in barca bisogna sempre indossare le scarpe. Allacciate.

Anche x oggi mi fermo qui.

ciao Luciano

POINT NEMO: IL PUNTO PIU’ REMOTO DEL MONDO

POINT NEMO non è il nome di una località dedicata al famoso Capitan Nemo di Giulio Verne né al colorato pesciolino della Pixar. È invece il punto dell’oceano PIU’ LONTANO da qualsiasi terra emersa.

Non è un’isola ma una semplice posizione geografica, coordinate 45° 52′.6S – 123° 23′.6W, in mezzo all’Oceano Pacifico, che viene anche chiamato il POLO DELL’INACCESSIBILITA’.

Nel 1992 un ingegnere croato-canadese, Hrvoje Lukatela, utilizzando un programma ha calcolato ed individuato questo punto REMOTO che risulta equidistante da tre diverse linee di costa di oltre 2.600 km (!).

I punti della terra ferma più vicini sono l’Isola di Ducie (un atollo corallino dell’arcipelago delle Pitcainr), Moto-Nui (Isole di Pasqua) e l’Isola di Maher (in Antartide).

Se questi numeri non dicono nulla, pensiamo che gli esseri umani che di solito passano più vicini a Point Nemo sono gli ASTRONAUTI della Stazione Spaziale Internazionale che, quando lo sorvolano, sono ad “appena” 400 km di altezza.

Cieli sereni
Paolo Giannetti

4 detti simpatici per noi che andiamo in barca …andare in barca non è difficile, il difficile è insegnare ad andare in barca….La vela più grande è la maestra, la maestra più grande è la vela…Di maestro in barca c’è solo l’albero…in barca bisogna stare con i piedi per terra… Rimanere allievo è il segreto di ogni maestro… Acqua sotto la carena ne deve passare tanta, la scia che lascia la barca è la prima di quella che viene e l’ultima di quella che va. E ora la più importante…per imparare ad andare in barca, bisogna andare in barca!

Buon vento …Luciano

Più di centomila miglia di navigazione, di cui oltre ventimila in solitario. Basterebbe, ma non basta, per spiegare chi è stato per la vela italiana e internazionale Franco Malingri di Bagnolo, che si è spento ieri notte a Milano. Franco, Francone o l’Ammiraglio come lo descriveva la schiera dei ragazzi che oltre ai suoi tre figli Vittorio, Enrico e Francesco e tanti nipoti, che da lui hanno preso ispirazione, uno fra tutti Giovanni Soldini, per decenni è stato il capo della tribù degli oceanici italiani.

Nato a Torino nel 1934, Franco Malingri iniziò fin da ragazzo a compiere avventure in giro per il mondo, come una traversata dell’Africa con la risalita del Nilo e la discesa del Congo con piccole imbarcazioni, fatta con alcuni suoi compagni scout.

Malingri era un uomo pieno di interessi, curioso, intelligentissimo, un teorico ma anche e soprattutto uno che nelle barche e nelle cose amava “metterci le mani”. Si era laureato in ingegneria, facoltà che gli sarebbe stata utile non solo per la sua carriera di imprenditore ma anche per lo sviluppo di barche, dai famosi Moana, fino ai multiscafi degli anni 2000. Nel 1973 partecipò su CS&RB con il fratello Doi, alla prima Whitbread, la regata in equipaggio attorno al mondo (divenuta Volvo Ocean Race e oggi The Ocean Race, ndr), e nel 1978 portò a termine un giro del mondo insieme alla famiglia e agli amici. Avventura dalla quale ha preso vita anche il libro “Moana”, molto amato dai “vagabondi degli oceani”. Nel suo curriculum anche tre transatlantiche in solitario Ostar, nel 1988, 1992 e 1996 e la collaborazione alla progettazione del Moana 60’ con cui il figlio Vittorio avrebbe preso parte, primo italiano, al Vendée Globe nel 1992.

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Sulla sua barca, un Moana 39’, lui e la moglie Fausta dal 1983 hanno ospitato numerosissimi amici per crociere nei posti più belli del pianeta. E nella loro casa di Milano hanno raccolto un vastissimo archivio di foto, video, ricordi e progetti. Quando, in seguito a problemi di salute, perse l’uso di una gamba, non si perse certo d’animo. Con uno spirito fuori dal comune e delle protesi disegnate da lui stesso, riprese non solo a vivere normalmente ma ad andare in montagna, ad arrampicare, sciare, camminare e portò persino a termine il suo secondo Cammino di Santiago. Negli ultimi anni, si era dedicato anche alla scrittura, con libri di narrativa, spesso ambientati in barca o in un futuro prossimo, prima di essere colpito dalla malattia. Buon vento Franco.

Prima dei moderni timoni elettronici si usavano i timoni a vento, questi erano formati da una banderuola all’altezza del pulpito di poppa e una pala in legno, che tramite demoltipliche essendo l’acqua più densa dell’aria, riduceva lo sforzo sul timone principale e correggeva la rotta senza il bisogno di stare continuamente al timone. Il grande marinaio Franco Malingri, progettista della serie Moana (barche oceaniche infatti Moana in lingua Maori significa Oceano) , fece alcune innovazioni brevettandole col nome Mustafà. Ancora oggi nelle traversate oceaniche se ne fa largamente uso. non si rompe e se succede, si può riparare facilmente.

Oggi esistono due grandi famiglie di piloti automatici, quelli alimentati in elettricità e comandati da una bussola elettronica e quelli alimentati dal vento e comandati dalla direzione del vento.
I piloti elettrici, detti piloti automatici o autopiloti, hanno il vantaggio di funzionare anche in assenza di vento, ma consumano elettricità
e quindi si usano in genere quando si va a motore. Costano meno di
quelli a vento e sono poco ingombranti.
Ma se intendete navigare a lungo a vela allora avete bisogno di un
timone a vento, altrimenti sarete obbligati a tenere acceso il motore
(o il generatore, se l’avete) per compensare il consumo di elettricità
dell’autopilota.
Il timone e vento costa di più e ingombra molto, ma non avendo
parti elettroniche ma solo meccaniche, si guasta raramente.
Infine il timone a vento risponde meglio alle variazioni di rotta.
Evidentemente l’autopilota tiene la rotta indipendentemente dal
vento, mentre il timone a vento, se il vento cambia, si mette su una
nuova rotta, conservando l’angolo al vento. Nonostante questa limitazione, quasi tutte le barche che fanno traversate oceaniche hanno un
timone a vento.

Mustafà
Franco Malingri ha progettato e prodotto un timone a vento storico,
Mustafà. Questo pilota aveva il comando con il pendolo tipo Gianoli
e un timone ausiliario, ma il servopendolo non ruotava direttamente il
timone ma un ’trimmer’ collegato al timone .
Anche in questo caso un piccolo sforzo prodotto dal servopendolo
riesce far ruotare il trimmer e che a sua volta provoca la rotazione del
timone.
Poiché il trimmer ruota ma è collegato al timone che può ruotare
a sua volta, si ottiene una rotazione del timone, similmente a quan-
to accade negli aerei dove una rotazione degli alettoni provoca uno
spostamento di tutto l’aereo.

Grazie Luciano

ISOLE DI BRISSAGO
Le isole di Brissago sono due: l’Isola Grande e l’Isolino. La prima, per via della sua
chiesuola viene chiamata anche San Pancrazio, la seconda
Sant’Appollinare. Nel 1885 entrambe vennero chiamate
Isole Saint Leger, dal nome dei nuovi proprietari. La
Baronessa Antonietta ricavò sull’isola grande una palazzo
in stile neoclassico ed un magnifico parco ricco di rare
piante esotiche. Dopo alterne vicende nel novembre 1949
venne sottoscritto un accordo per effetto del quale le isole
assumono il nome di Isole di Brissago ed il parco quello di
“Parco Botanico del Cantone Ticino”. Si distingue dagli altri
parchi botanici svizzeri e dei paesi confinanti per la presenza di un numero considerevole
di piante esotiche di provenienza subtropicale che vengono coltivate all’aperto. Esse sono
ripartite nel Parco secondo criteri geobotanici; sono state cioè create delle associazioni
vegetali secondo la provenienza delle piante. In tal modo viene offerto al visitatore
l’impressione di trovarsi tra gli Eucalipti dell’Australia con le specie tipiche della regione, o
tra gli arbusti della macchia mediterranea. Le associazioni più importanti e più complete
sono quelle della macchia mediterranea con l’erica arborea, lo smilace, il pistacchio, il
carrubo, il cisto bianco, il rosmarino, il corbezzolo, la fillorea ecc. Le specie tipiche di
questa associazione sono contraddistinte dalla presenza di foglie piccole o coriacee

contenenti olii eterei che evaporando durante le ore più calde del giorno abbassano la
temperatura degli organi vegetali. Associati alla macchia mediterranea vediamo anche il
mandorlo, l’albero del Padrenostro, i cui semi vengono adoperati per la fabbricazione delle
corone del rosario. Altre specie conviventi con quelle menzionate sono le erbe aromatiche
come il timo, l’issopo, la melissa, la lavanda, l’erba ruta, la salvia ecc.
La baronessa Antoinette de Saint Léger, nel lontano 1885, trasformò l‟Isola Grande in un
bellissimo giardino esotico.
La dimora divenne il centro di intense attività culturali. Vi convenivano pittori, scultori,
musicisti e scrittori.
Nel 1927, caduta in povertà, la baronessa fu costretta a vendere la proprietà ad un ricco
commerciante amburghese, Max Emden, che costruì l‟attuale villa, il bagno romano,
“l’orangerie” e la darsena.
Nel 1949 le Isole di Brissago furono acquistate in comproprietà dal Cantone Ticino, dai
comuni di Ascona, Brissago e Ronco s/Ascona, dalla Lega Svizzera per la protezione dei
beni culturali (Heimatschutz) e dalla Lega Svizzera per la protezione della natura (Pro
Natura) e furono aperte al pubblico come Parco Botanico del Cantone Ticino.
Nel 2019 questo pregiato comparto è stato acquisito dal Cantone Ticino. La firma dell’atto
notarile ha fatto seguito all’approvazione da parte del Gran Consiglio del Messaggio
governativo concernente la ratifica delle Convenzioni stipulate tra il Cantone e i Comuni di
Ascona, Brissago e Ronco sopra Ascona, e il credito per il risanamento urgente degli
edifici, degli impianti tecnici, delle strutture esterne e per la progettazione di interventi e
misure per rendere più funzionali, fruibili e attrattive le due Isole. L’acquisizione delle Isole
di Brissago da parte del Cantone Ticino ha così permesso di riorganizzare
l’amministrazione e la gestione delle stesse, allo scopo di preservare e valorizzare
ulteriormente il patrimonio che questo comparto rappresenta nel contesto cantonale e
nazionale.
Bagnate dalle acque, protette dalle Alpi e baciate dal sole, queste magnifiche isole danno
la possibilità al visitatore di fare il giro del mondo in quattro passi. Le isole godono di un
clima particolarmente mite che consente di coltivare in piena terra delicate piante
subtropicali.
Il parco Botanico (2.5 ettari) offre più di 1500 specie di piante provenienti dal
Mediterraneo, dall‟Asia subtropicale, dal Sud Africa, dalle Americhe e dall’Oceania.
Da vedere…
oltre ai Rododendri, alle Azalee, alle Camelie, tipiche ospiti dei giardini d‟insubria che
mostrano il loro splendore a primavera, segnaliamo diverse specie di Palme e di Bambù, il
Cipresso calvo, alcuni Eucalipti centenari messi a dimora dalla Baronessa de Saint Léger,
i Cisti del bacino mediterraneo e le felci arborescenti d‟Oceania.
La storia dell’isola
La storia delle Isole si perde nel tempo. Sull‟Isola Grande sono state rinvenute vestigia
romane; sull‟Isolino ci sono i resti di una chiesa del 1250 circa: sui muri sono ancora visibili
affreschi di stile romanico. Nel 1885 la baronessa Antonietta Saint Leger trasforma il luogo
in dimora e da vita ad un‟intensa attività culturale: vi convengono pittori, scultori, musicisti,
scrittori. L‟Isola Grande diventa giardino esotico, d‟importanza particolare: del 1913 il diario
sulle specie coltivate pubblicato a Londra (The vegetation of the Island of St. Leger in
Lago Maggiore). Caduta in miseria, nel 1927 vende tutto a un ricco commerciante
amburghese. Max Emden, a sua volta, fa costruire l‟attuale villa, la darsena e il bagno
romano; fa sistemare le aiuole. Conduce vita sfarzosa per un decennio; vi crea un suo
eden.

Nel 1949 le Isole di Brissago sono acquistate dallo Stato del Canton Ticino, dai Comuni cli
Ascona, Brissago e Ronco s/Ascona e dalla Lega svizzera per la salvaguardia del
patrimonio nazionale e da Pro Natura. Diventano Parco botanico del Canton Ticino.
MAGIA DEL LAGO MAGGIORE
Il lago Maggiore è per estensione il secondo lago italiano dopo quello di Garda. Il Verbano
(questo, in realtà, il suo vero nome) si suddivide tra la Lombardia (provincia di Varese), il
Piemonte con le province di Novara e Verbano-Cusio-Ossola e,
nella sua parte più settentrionale, la Svizzera: quasi a dispetto
dei nazionalismi regionalismi e provincialismi ancora esistenti, il
turismo diventa ancora, al di là dell’interesse dei singoli un
denominatore comune. Nasce dal fiume Ticino che vi si riversa
quando ancora si trova in territorio elvetico formando un ampio
delta e che sfocia a Sesto Calende. La sua forma allungata (66
Km di lunghezza), il profilo a U delle sponde, la profondità
(circa 175 m) e i depositi morenici testimoniano la sua origine
glaciale, comune, del resto, anche agli altri laghi prealpini.
L’intera zona del lago fu abitata sin dall’antichità: nel corso dei
secoli fu teatro di incontri e scontri tra uomini e civiltà poiché
costituiva una via di transito naturale con il centro d’Europa. La
sua felice posizione spiega anche la presenza di sistemi
fortificati che talvolta sfruttarono particolari condizioni naturali
(come per esempio la rupe che sorregge la rocca di Angera)
I castelli di Cannero
Il paesaggio così ricco di storia e di testimonianze storiche e artistiche è quanto mai vario:
angusto nella parte più meridionale, si allarga e diventa particolarmente ricco di
vegetazione e architetture nel golfo Borromeo, favorito sia dal clima sia dall’operosità
dell’uomo, che seppe costruire sontuosi palazzi e circondarlo di splendidi giardini
indispensabile premessa e futuro stimolo per il decollo turistico. La sponda lombarda del
lago è caratterizzata da dolci colline che degradano progressivamente fino alla riva, dove,
tra fiumi e torrenti, si alternano spiagge sabbiose e pareti rocciose.
In un contesto di vegetazione lussureggiante, le profonde insenature offrono un’alternanza
di panorami senza eguali che trovano la loro sublimazione nelle escursioni in battello. Chi
si allontana dalla costa del lago potrà vedere la flora mediterranea cedere il passo ai
boschi di latifoglie e conifere in un mix davvero unico a queste latitudini.

Storia dei castelli di Cannero
I castelli di Cannero furono costruiti tra il 1200 e il 1300 d.C. e vennero denominati
“Malpaga”. Alla fine del XIV sec. i Mazzarditi, famiglia composta da cinque fratelli, invasero
Cannero e si impadronirono anche della Malpaga. In quel periodo Cannobio era divisa fra
Guelfi e Ghibellini; i Mazzarditi approfittarono di queste discordie e in una notte fra la fine
del 1403 e il 1404 si impossessarono del pretorio comunale uccidendo una moltitudine
Guelfi. Quando Filippo Maria Visconti divenne duca di Milano inviò un esercito di 500
uomini per sconfiggere i Mazzarditi, i quali nel 1414 vennero cacciati da Cannero e la
Malpaga venne rasa al suolo. Nel 1421 i Mazzarditi ricevettero la grazia dal duca di Milano
e ritornarono in patria. Circa trent’ anni dopo le isole di Cannero vennero cedute alla
famiglia Borromeo, la quale fece edificare sulle rovine una rocca fortificata denominata
“Vitaliana”.
Nella guerra tra gli imperiali e i francesi Ludovico Borromeo appoggiò questi ultimi, anche
se nel momento in cui i ducali e gli spagnoli circondarono la Vitaliana i Borromei non
ottennero l’aiuto desiderato. Nel 1526 la costruzione della Vitaliana fu terminata; alla morte
di Ludovico, il 5 ottobre del 1527, i castelli vennero ereditati dai figli i quali non
amministrarono perfettamente le proprietà. Alcuni anni dopo la Vitaliana venne
abbandonata perché era un facile bersaglio in caso di attacco, data la sua posizione vicina
alla riva. Divenne asilo di contrabbandieri, rifugio di pescatori e perfino luogo in cui
venivano falsificate monete. Nel 1645 i Borromeo pensarono di abbellire i giardini che
circondavano la rocca, ma i lavori non presero mai il via, anche il progetto di migliorare il
porto fu abbandonato. Oggi su quei tre isolotti esistono solo le rovine della fortezza.
Alla fine del 1300 le condizioni deplorevoli del Ducato di
Milano non permettevano un controllo delle tirannie locali e
delle lotte fra le diverse fazioni. Su due isolotti situati nelle
vicinanze di Cannero c’erano due castelli, costruiti fra il
1200 e il 1300, detti “Malpaga”, abitati verso la fine del XIV
secolo dai cinque fratelli Mazzardi, detti “Mazzarditi”,
originari di Ronco. Cannobio era allora divisa dalle opposte
fazioni: “Guelfi” e “Ghibellini”.
Approfittando di questa circostanza, una notte tra la fine del
1403 e gli inizi del 1404, aiutati dalla famiglia comasca dei
Rusca, questi predoni, i Mazzarditi, s’impadronirono del palazzo del pretorio comunale,
uccidendo i guelfi posti alla sua difesa, appartenenti, questi
ultimi, soprattutto alla famiglia dei Mandelli. Per parecchi
anni i Mazzarditi tennero a ferro e fuoco tutto il litorale, ma
con l’elezione di Filippo Maria Visconti a nuovo Duca di
Milano, gli avvenimenti presero una piega diversa: il
Signore, di fronte alle suppliche del popolo del lago, inviò il
condottiero Giovanni Lonati con 500 uomini per sconfiggere
i Mazzarditi. Il castello di Traffiume, in loro possesso, fu
subito espugnato, così come il palazzo di città; iniziò poi
l’assedio del castello Malpaga dell’isola. Nell’anno 1414,
circondati da ogni parte e stremati dalla mancanza di
vettovagliamento, i ladroni si arresero. Nel 1441 le isole
divennero proprietà dei Borromeo, concesse dal duca
Filippo Maria al conte Vitaliano I figlio di Filippo I Borromeo e Franceschina Visconti. Il
conte Lodovico Borromeo, nel 1519, fece edificare sulle rovine delle isole una rocca
fortificata, denominandola “Vitaliana”, in onore della famiglia padovana capostipite dei

Borromeo. Dopo la morte di Lodovico la rocca fu progressivamente abbandonata a se
stessa: ebbe così inizio la sua inevitabile rovina.
Per la sua posizione di “rottura” all’interno della cerchia alpina il Lago Maggiore è sempre
stato una naturale via di comunicazione che è servita da collegamento tra l’Europa
centrale e la Pianura Padana. Proprio per tale funzione “strategica” e quindi per la
necessità di controllare e difendere le terre circostanti sorsero, nei secoli, opere di
fortificazione nei punti chiave del territorio, sfruttando magari quelle che erano le difese
naturali rappresentate da isole, insenature, speroni rocciosi ecc.
Alberto Besozzi di Arolo, qui eremita per voto dopo un naufragio nell’antistante scoglio,
fece costruire sopra la sua grotta-abitazione, dalla gente dei vicini paesi come ex-voto per
la cessazione della peste, una cappella simile a quella in vetta al Monte Sinai, ove gli
angeli avevano deposto il martoriato corpo della Vergine Caterina d’Alessandria. I
Domenicani, che ad Arolo avevano un “ospizio” per predicare in zona, attesero al
nascente santuario e costruirono le cappelle di Santa Maria Nova (1270) e di San Nicola
(1305-1310?), protettore dei naufraghi, ed anche il gotico conventino centrale con le
finestrelle di sapore ancora romanico.
Ai Monaci Romiti Ambrosiani, qui giunti circa nel 1320, si deve l’unificazione delle tre
cappelle in un unica chiesa dalla linea discontinua molto originale e fortemente mistica.
Il panoramico campanile tardo romanico audacemente strapiombante sul lago e i due
loggiati sovrapposti del convento meridionale, frutto del restauro del 1624, caratterizzano
ancor più la stupenda visione di questa perla del lago Maggiore.
Soppressi i Romiti Ambrosiani (1644) vennero i Carmelitani. Dal 1770 l’Eremo Santuario fu
gestito dal Clero della parrocchia di Leggiuno. Nel 1970 è passato di proprietà della
Provinciale di Varese che, con grandiosi lavori, ne ha promosso il recupero, affidandone la
cura ai padri Domenicani.
Nel 1992, in seguito a lavori di ricerca iniziati l’anno prima, l’intera parete dell’abside della
chiesetta di S. Nicola restituisce, dopo circa 500 anni, l’affresco rappresentante una
Crocifissione che potrebbe essere di cultura pregiottesca (l’affresco continua anche sotto
l’arco barocco e un sondaggio mostra una meravigliosa testa della Madonna e due
splendide pecorelle).
Abbarbicato sulla roccia a strapiombo in uno dei punti più profondi del Verbano, l‟Eremo
è un complesso monastico di tre edifici risalenti ai secoli XIII-XIV. Fu fondato dal Beato
Alberto Besozzi di Arolo che fece un voto a S. Caterina d’Alessandria durante un
naufragio e che si ritirò qui in una grotta per 35 anni a condurre vita eremitica

Durante una pestilenza nel 1195 fece costruire il sacello.
Nel secolo XIV era abitato da una comunità di monaci Agostiniani, ai quali nel 1379
subentrarono i Romiti Ambrosiani e successivamente nel 1649 i Carmelitani.
Dal 1970 l‟ Eremo è proprietà della Provincia di Varese. Dal 1986 al 1996 è stato retto
da una comunità Domenicana, oggi è passato agli Oblati Benedettini.
Numerosi i cicli pittorici entro e fuori le mura della chiesa, che coprono un periodo che
va dal XIV al XIX secolo. Arte e storia si integrano splendidamente in un quadro
naturale dei più suggestivi, quasi una balconata che si protende verso le isole
Borromee.
L‟ Eremo si può raggiungere dal piazzale sovrastante, ricco di ampi parcheggi,
scendendo una comoda e pittorica scala di 268 gradini o via lago salendone
un‟ottantina. Grazie alla Provincia questo prezioso patrimonio storico-artistico sta
ritornando al suo antico splendore. Nella sala capitolare è esposta una preziosa
documentazione fotografica che illustra l‟impegnativo intervento di restauro fatto dalla
Provincia, la quale inaugura qui ogni anno il suo programma di concerti estivi con una
serata indimenticabile.
L’Isola Bella
Era un isolotto selvaggio abitato solo da pescatori quando, attorno al 1632, il conte Carlo
Borromeo diede inizio alla sua trasformazione in uno scenografico e fastoso complesso
barocco, che coniuga sapientemente architettura, scultura e arte del giardino. Del
grandioso palazzo, e del magnifico parco che lo circonda, parla il brano seguente, tratto
dalla Guida Rossa Piemonte del Touring Club Italiano.
L‟Isola Bella, situata di fronte al Lido di Stresa, a circa 400 metri di distanza dalla costa del
lago, è la più celebrata e famosa delle tre isole Borromee, esempio tra i più fastosi di
scenografico ambiente barocco creato con l‟apporto combinato di architettura, scultura e
arte del giardinaggio.
Fin verso la metà del „600 l‟isola, detta allora di San Vittore, era un nudo scoglio abitato da
pescatori. La sua trasformazione in luogo di delizie iniziò attorno al 1632 per volontà del
conte Carlo III Borromeo, che in omaggio alla moglie Isabella d‟Adda chiamò l‟isola
Isabella, nome poi trasformato in Isola Bella. La grandiosa opera di costruzione del
palazzo e del parco fu continuata dai figli di Carlo III, Vitaliano e Gilberto, e ad essa
contribuirono numerosi architetti dell‟epoca, tra i quali Francesco Maria Richini, Francesco
Castelli e Carlo Fontana.
Il sontuoso e vasto Palazzo Borromeo, la cui costruzione cominciò attorno al 1632 insieme
ai lavori per il giardino, si presenta come una compatta mole a quattro piani nel corpo
centrale e a tre nei corpi laterali. Conserva all‟interno ricchi arredi originali, con ambienti
assai notevoli: il Salone da ballo; la Sala dell‟alcova; la sfarzosa Sala del trono; la grande
Camera da letto, che ospitò Napoleone e altri sovrani. Le sale sotterranee sono sistemate
a guisa di grotte, con pareti di tufo e stalattiti, incrostate di marmi. Nel palazzo ebbe luogo
dall‟11 al 14 aprile 1935 la “Conferenza di Stresa”, protagonisti Laval, Mac Donald e
Mussolini, che sulla base della collaborazione italo-franco-britannica avrebbe dovuto
garantire la pace europea.
Tra le opere più importanti della Pinacoteca sono i dipinti di Antonio Tempesta (che qui si
rifugiò e dimorò a lungo quando fu accusato di aver ucciso la moglie), di Gian Battista
Tiepolo e di Francesco Zuccarelli. Interessanti le collezioni di armi antiche e di arazzi
(mirabile la Galleria, con tappezzerie fiamminghe del secolo XVII); molti i mobili antichi.
Nella Cappella, costruita nel 1834 per ordine di Vitaliano IX Borromeo: ancona d‟altare,
scultura campionese del primo „400; monumento funebre a Giovanni e Vitaliano Borromeo
e monumento funebre a Camillo Borromeo, opere di Giovanni Antonio Amadeo;

monumento funebre Birago, del Bambaia (1515). I monumenti furono qui trasferiti, nel
1796, dalle chiese milanesi di San Pietro in Gessate e di San Francesco Grande.
Dal palazzo, per la Galleria degli arazzi, si passa nel giardino, tra i capolavori dell‟arte dei
giardini all‟italiana dell‟epoca barocca. Occupa gran parte dell‟isola e consta di dieci
terrazze sovrapposte a gradinata, adorne di statue e fontane, coperte di cedri, aranci,
limoni, magnolie, allori, camelie, conifere e piante rare. Sull‟ultima terrazza, il cosiddetto
Teatro, scenografica costruzione in pietra coronata da un grande liocorno, stemma dei
Borromeo. Magnifiche le vedute sul lago e sulle sponde.
Nel 1632 il Conte Vitaliano Borromeo iniziò la costruzione del monumentale palazzo
barocco e della maestosa scenografia dei giardini che diedero fama all’Isola e che ancor
oggi documentano gli splendori di un’epoca.
La dimora dei Borromeo offre ai visitatori un ambiente elegante e sontuoso che conserva
inestimabili opere d’arte: arazzi, mobili,statue, dipinti, stucchi ma anche le curiose grotte a
mosaico,luogo di frescura e di diletto. Terminata la visita al Palazzo, si accede ai giardini
per una piacevole passeggiata. Questo singolare monumento fiorito sviluppato a terrazze
ornate e sovrapposte, è un classico e inimitabile esempio di “giardino all’italiana”
seicentesco. Fra piante esotiche e rare, la spettacolare fioritura è progettata per offrire

colori e profumi da marzo a ottobre.

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La più grande delle Isole Borromeo e la più caratteristica per l’atmosfera raccolta, silente,
incantata: un giardino di piante rare e fiori esotici nel quale vivono in piena libertà pavoni,
pappagalli e fagiani d’ogni varietà creando il fascino di una terra tropicale.
L’Isola Madre è particolarmente famosa per la fioritura di azalee, rododendri, camelie, ma
anche per i pergolati di glicini antichissimi, l’esemplare più grande d’Europa di Cipresso del
Kashmir di oltre duecento anni,le spalliere di cedri e limoni, la collezione di Ibisco e il
Ginkgo biloba.
Nel 1978 è stato aperto al pubblico il Palazzo del XVI° secolo, interessante per la
ricostruzione di ambienti d’epoca e per le collezioni di livree, bambole e porcellane.
Eccezionale l’esposizione dei “Teatrini delle Marionette” del ‘600/’800.
L’Isola Madre lascia al visitatore un ricordo di estrema raffinatezza nella cura dei giardini e
degli interni, offrendo un contenuto qualitativo destinato ai turisti più esigenti.
Nel punto più ampio del Golfo Borromeo si leva dalle acque la più grande delle isole del

Verbano: l’Isola Madre.
Anticamente nominata Isola di San Vittore per la presenza di una cappella dedicata al
Santo, è stata probabilmente la prima ad essere abitata. I primi lavori di trasformazione in
luogo di residenza privata, furono realizzati dal Conte Lancillotto Borromeo agli inizi del
secolo XVI.
L’Isola vive negli ultimi decenni del ‘500 un periodo di vivace attività edificatoria con
Renato I Borromeo (allora ribattezzata Renata), ad opera di importanti architetti quali
Pellegrino Tibaldi, il Crivelli e Filippo Cagnola. Alla fine del secolo XVIII il luogo aveva
assunto l’aspetto che sostanzialmente conserva ancora oggi.
L’ultima grande opera architettonica intrapresa fu la Cappella di famiglia, voluta a partire
dal 1858 da Vitaliano IX ad opera dell’architetto Defendente Tannini

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Isola dei Pescatori (o Superiore)
L‟inconfondibile profilo dell‟antico borgo, immutato con lo scorrere del tempo, rappresenta
sicuramente la più pittoresca delle Isole Borromee: il campanile aguzzo spunta dai coppi
rossi dei tetti, le case dai bassi porticati si affacciano sul lago mostrando pergolati ed
altane, la riva è sempre occupata dalle barche. La suggestione aumenta alla sera, quando
l‟intera isola viene avvolta da un‟armoniosa illuminazione che la trasforma in un vero e
proprio quadretto vivente che si specchia nelle docili acque del Lago Maggiore.
Detta anche Superiore per la posizione più a nord rispetto alle altre due “sorelle”, prende

nome dalla prevalente funzione che da secoli caratterizza questo borgo di pescatori.
Nonostante siano rimaste poche famiglie a mantenere l‟attività originaria, appare ancora
integra l‟identità della piccola comunità, che non cessa di affascinare i turisti con la
semplicità delle sue case, le strette viuzze, i portali in pietra ed i suggestivi sottopassi.
La Chiesa di San Vittore, poi, eletta a monumento nazionale, conserva tuttora l‟originario
abside con finestre monofore risalente al sec. XI. Successivamente ampliata con
l‟aggiunta delle cappelle ora dedicate alla Vergine ed al Sacro Cuore, raggiunse nel 1600
le attuali dimensioni. Al suo interno è conservato un affresco cinquecentesco raffigurante
Sant‟Agata, oltre ad alcune tele secentesche ed i busti in legno degli apostoli Pietro e
Andrea, patroni dei pescatori.
Sull‟isola si trovano alcuni negozietti tipici e, soprattutto, quei rinomati ristoranti dove è
possibile gustare i piatti a base di pesce appena pescato, tradizione che perdura nel
tempo e che non cessa di deliziare i palati di personaggi famosi.
A questo proposito vale la pena ricordare l‟aneddoto che nel 1935 vide Mussolini e gli altri
protagonisti della Conferenza di Stresa optare per un fuoriprogramma sull‟isola, attratti dal
desiderio di gustarne il piatto più celebre, il pesce persico.

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L’origine di questo scoglio si perde nel tempo dei tempi quando le sue
rocce emersero da questo antico lago, la cui natura circostante tuttora
esplode in magnificenza di colori, montagne, valli, i fiumi Ticino e Toce e
innumerevoli torrenti. Basandoci, in epoca più recente (1850), sull’opera di
Vincenzo De Vitt,” Il Lago Maggiore – Stresa e le Isole Borromee “, si
estrae quello che lui menziona come il “punto storico” o punto di partenza
della vita di quest’isola, che, sembra, un tempo si chiamasse Isola degli
Ulivi e fosse l’unica abitata “perché meno elevata e di superficie più
regolare”. Oggi, sebbene più semplice e con meno “pedigree” delle altre
(Isola Bella e Isola Madre della Famiglia Borromeo) é punto turistico
conosciuto internazionalmente e visitato per circa otto mesi all’anno da
turisti che si incantano per la semplicità, per la disposizione dei suoi vicoli
che ricordano la forma di un pesce, alberghi, ristoranti, bar, negozi e
chioschi, la chiesa dedicata a San Vittore martire (monumento nazionale)
ed il piccolo e suggestivo cimitero-giardino che in sbiadite fotografie ricorda
anche i primissimi abitanti isolani. L’antica attività del pescatore é tuttora
esercitata da una decina di uomini che integrano la “Cooperativa Dei
Pescatori” e forniscono pesci ai ristoranti locali che li servono in deliziose
ricette. Il più anziano di loro, Pier Battista Ruffoni, ne é il presidente (eterno
innamorato di queste acque che naviga, con la tipica barca da pesca, dalla
sua prima infanzia, accompagnando il padre anche lui pescatore come lo
erano tutti gli isolani in quell’epoca). Oggi Pier Battista stende la sua lunga
esperienza in sollecitate interviste televisive ed agli alunni di molte scuole
che qui approdano per conoscere il lago ed i suoi “segreti”…La magia di
quest’isola aumenta nelle giornate invernali con la neve ed il silenzio,
attingendo il suo massimo nella tradizionale sera del Ferragosto quando la

statua della Madonna é portata in processione con barche fiorite ed
illuminate attorno all’isola ….
GLI ABITANTI DELL’ISOLA PESCATORI
L’Isola Pescatori è abitata per tutto l’anno da una cinquantina di residenti stabili. Le
particolari condizioni di vita spingono gli abitanti ad una solidarietà spontanea in caso di
necessità. La pesca, un tempo attività principale, è ancora praticata da alcune famiglie che
hanno conservato una tradizione antica quanto affascinante. Se siete fortunati, potrete
imbattervi in qualche pescatore intento a riparare le reti sulla riva. Le tracce di questo
antico mestiere si trovano un po’ ovunque: alla “coda”, la striscia di terra alberata con cui
termina l’Isola, si trovano ancora alcuni elementi in ferro che un tempo erano usati come
supporti per stendere le reti; nei pressi del piccolo porto, dove sono ormeggiate le barche
da pesca, si conservano i resti di una caldaia che veniva utilizzata per tingere le reti, infatti
il colore delle reti varia a seconda dell’uso