Ciao gruppo, buon anno : con l’approvazione del nostro presidente provo a trattare quest’altro argomento:
Il bonton del velista, o se preferite, lo Yacht Man. Prima di salire in barca si chiede il permesso al comandante , avutolo ci si aiuta tenendosi alle sartie ( non alla draglie o candelieri) poi una volta saliti una delle prime cose sono le scarpe, le scarpe sono gli accessori d’abbigliamento che calpestano le barche, quindi devono essere con suola bianca, senza ” carroarmato” ma piuttosto con un buon grip x non scivolare, vanno legate bene al piede x non perderle.

Se ci sono ospiti a bordo magari poco pratici bisogna spiegare come funziona la vita in barca, a cominciare dal w.c. per il suo uso corretto non sprecare l’acqua, la carta non si butta dentro ma in un contenitore apposito. Fare attenzione ai fornelli, aiutare nei lavori di riordino. In navigazione bisogna spiegare lo svolgimento del corretto uso delle manovre, quando ci si muove in coperta tenersi sempre, ricordare un detto: una mano per te, una mano per la barca.
Ora quando si arriva in rada dare ordini precisi sul punto dove si intende ancorare . Fare attenzione di avere un buon campo di giro x non andare ad abbordare le altre barche che possono trovarsi nei pressi.
Bisogna evitare schiamazzi che possano dare fastidio ad altri diportisti. Se si mangia in pozzetto ci si può lasciare andare a canti e suoni che è cosa piacevole, ma con moderazione. Al mattino si riparte, spesso mentre altri ancora dormono…evitare rumori inutili e urla. Navigazione ottima, piacevole, la zona di prua invita a prendere il sole, usare degli asciugamani, anche x non macchiare la coperta con creme solari, soprattutto se è una bella coperta in teak.
Quando si entra in un marina valgono le stesse regole precedenti. Può capitare di dover mettersi in andana perché non c’è posto in banchina, chiedere sempre il permesso alla barca cui intendiamo avvicinarci. Le cime d’ormeggio vanno portate a terra e fatte passare sotto a quelle già in bitta.
Se si scende a terra ci si tolgono le scarpe e chiedendo il permesso si passa sempre a proravia dell’albero. Inutile dire le stesse cose valgono al rientro, evitando schiamazzi, magari dopo una buona bottiglia di prosecco. Altra raccomandazione quando si rientra in porto si collabora tutti alle operazioni di ormeggio, via cellulari, cuffiette, libri, asciugamani, sigarette (a parte che in barca non si dovrebbe fumare) se si era in costume da bagno ci si mette pantaloncini e
maglietta. Non vanno mai portate cose ingombranti, solo borsoni non rigidi che sono facili da stivare. Ultima raccomandazione…portare sempre una buona bottiglia…
Sicuramente avrò tralasciato qualcosa, si accettano altri consigli.

Grazie….da Luciano.

Ecco le 10 regole base del galateo in barca:

1 Dimostrarsi disponibili – e rispettosi – dei turni per piccole incombenze
2 Ringraziare e fare complimenti all’equipaggio- Sempre
3 Evitare di portare borse rigide come bagagli
4 No ai  tacchi (sono anche pericolosi)
5 Le scarpe non si indossano
6 Non gettare cose nel gabinetto (nè tanto meno in mare!)
7 Lo Skipper è sempre la persona più importante
8 Adattarsi al cibo che viene proposto
9 Non ci si veste come in terraferma. Poche cose e marine
10 Non essere rigidi con gli altri compagni di barca

Ciao gruppo, parliamo di barche e di cani: in un certo senso vorrei associare la barca ad un cagnolino.

In queste occasioni natalizie si regalano anche bei cuccioli di cani, che bello che belli.

Così è la barca appena acquistata per il neo armatore : che bella! Amici, parenti vogliono che li porti a fare un giro, il sole, il bagno le veleggiate. Poi il cagnolino cresce vuole compagnia vuole giocare, correre, comincia ad essere impegnativo, lo si guarda sempre meno. Così è anche la barca. Dopo un anno la guardi sempre meno, sei solo la trascuri, le vedi passando sul pontile, abbandonate, sporche, picchiano tra loro e contro il pontile , si rovinano. Il povero cagnolino è diventato un fastidio! Devo andare in vacanza a chi lo lascio? Quando va bene lo si porta in un canile e poi magari non lo si va più a riprendere… E la barca ? Ha dei costi e così magari la metto alla boa o peggio non ci si va più. Poi c’è troppo vento o poco vento o fa troppo caldo o troppo freddo. La barca è come il povero cagnolino non lo puoi vendere, lui vuole il suo padrone, che lo faceva correre, giocare felice e contento…e così anche la barca. Pensateci.

La mia massima di oggi : in barca sei felice due volte , quando la compri e quando la vendi…che poi…non è vero…

Luciano⛵

Chiglia madiere e paramezzale
Anche quest’anno abbiam visto Natale.
Declinazione e Rette d’altezza
Che almeno quest’anno finisca in bellezza.
Nodi, venti e Correnti
Finalmente è finito il duemilaventi.
Baglio puntello e torello
Che l’anno venturo sia un sacco bello.
Bocche di rancio, passo d’uomo e ombrinale
Che il 2021 sia un anno speciale.

Ciao gruppo : visto che siamo in tema di Coppa America parliamone un po. Certo che di acqua sotto la carena ne è passata. Tutto ha inizio nel Regno Unito, correva l’anno 1851 quando la regina Vittoria decise di lanciare una sfida: girare l’isola di Wight, su un percorso di 58 miglia. Si presentò assieme ad altre barche e vinse lo schooner America, da li prese il nome di Coppa America. Come premio per vincitore fu messa in palio una brocca d’argento, diventerà la coppa delle “100 ghinee” . Un fatto curioso che passò alla storia riportata dalle notizie d’epoca racconta che la regina Vittoria a bordo dello yacht personale posizionato al traguardo aspettando l’arrivo della prima barca chiese: mio capitano qual’è il nome della barca? È lo schooner America mia regina e dietro nessuno. Da quell’anno mai nessuno riuscirà a conquistare quel famoso trofeo. Bisognerà aspettare il 1983 quando l’Australia riuscirà a vincere la coppa. Dai famosi schooner ai non di meno famosi J Class fino ai 12 metri stazza internazionale (20 metri di lunghezza) degli anni 80. Certo che per i nostalgici, per gli irriducibili, accettare le barche volanti di questi giorni è inaccettabile. Comunque bisogna guardare l’evoluzione che anno dopo anno ha cambiato il mondo della vela. E’ come in Formula Uno, il progresso non si arresta. Accettiamolo così com’è. Tifiamo tutti x Lunarossa

Lo Schooner tra cui l’America nacque dall’esigenza di portare velocemente il pescato dai “grandi banchi” a sud est dell’isola di Terranova fino ai mercati di Boston. Chi vi approdava per primo anche a scapito della sicurezza dell’equipaggio si aggiudicava il prezzo migliore. Erano barche di stazza compresa tra le 40 e le 90 tonnellate solide e capienti e sopratutto veloci!

x approfondimenti “Schooner” di Giulio Stagni ed. incontri nautici

Luciano

Belle Poule, fregata di 1° rango classe Surveillante, disegnata dall’ingegnere navale Mathurin-François Boucher.
Fregata detta da 60 (cannoni), fu messa in cantiere nel 1827-28 ma fu varata solo nel 1834: essendo stata costruita in un cantiere navale coperto (il primo nella storia della Marina di Francia), ciò permise ai costruttori di ritardare la costruzione in attesa di circostanze politiche e finanziarie favorevoli.
Ispirata dalle grosse fregate americane (USS Constitution), mise subito in evidenza ottime qualità velico-nautiche.
Dislocava 2500 tonnellate per una lunghezza di 54 metri con una larghezza di poco più di 14 metri ed un puntale di metri 3,80.
Era armata con 32 cannoni lunghi da 30 libbre, 4 obici Paixhans da 80 libbre e 24 carronate da 30 libbre.
Fu dismessa il 19 marzo 1861 ma fino al 1888 era ancora usata per immagazzinare la polvere da sparo.
Divenne famosa per aver riportato le spoglie di Napoleone da Sant’Elena in Francia nel luglio 1840, occasione per la quale fu dipinta tutta di nero ed è lo stato in cui si presenta lo stupendo modello in scala 1:40 che si trova nel Museo della Marina di Parigi, eseguito secondo Boudriot tra il 1825 ed il 1850.

Oggi vi parlerò di buchi che abbiamo sotto le barche, ce ne sono tanti, aprirli tutti vuol dire mandare a picco nel giro di pochi minuti il nostro guscio. Nell’opera viva ci sono le prese e gli scarichi a mare, tutti sono messi in sicurezza dalle valvole di chiusura, prese x lavelli x wc x raffreddamento motore e scarico pompe di sentina, altri buchi nell’opera morta sono gli ombrinali, servono a far defluire l’acqua nel pozzetto, quando piove e per le onde che sovrastano la barca. L ‘ombrinale del gavone dell’ancora, gli ombrinali delle falchette. Un altro bel buco lo troviamo in coperta quando l’albero è passante, si chiama mastra. Gli oblò sono sulla tuga. Ora vorrei aggiungere due aperture situate nelle coffe degli antichi velieri, le coffe che sono piattaforme situate a metà degli alberi da cui ci si muove lungo i pennoni delle vele tramite i marciapiedi e i tientibene: questi buchi di passaggio si chiamano: buco del gatto o buco del codardo, del codardo perché il marinaio che si serviva di questi non si aggrappava alle sartie rovesce o rigge. Il marinaio addetto è il gabbiere. Da notare i marciapiedi sotto il pennone. Sul Vespucci l’albero maestro è alto 70 mt dalla coperta e con rollio e beccheggio, vento e mare….Il trevo maggiore (pennone) è lungo 15metri.

Anche l’occhio di cubia é un ulteriore buco da cui esce l’ancora dalle navi.
I fori di biscia in sentina, tra un madiere e l’altro sono dei buchi per portare l’acqua nel punto più basso della sentina.

Chiudo con una mia metafora: la barca in se è un buco nell’acqua… buon vento. Luciano

Ciao gruppo, vorrei il più semplicemente possibile, spiegare la bussola, anche se durante ilcorso base 2 è già stata spiegata. È uno strumento indispensabile a bordo anche se con l’evento del G.P.S.(posizione globo satellite) se ne fa meno uso. La bussola che deriva da bosso, legno molto duro, ha origini antichissime, già nel XI secolo ne facevano uso, si dice che la sua invenzione è merito degli arabi, ma fu un italiano a perfezionarla, nel 1309 , si chiamava: Flavio Gioia di Amalfi. La bussola in sé è praticamente impossibile usarla se non è compensata, essendo” disturbata”dalla deviazione e dalla declinazione. La deviazione, agendo come una calamita è attratta dai ferri di bordo, motore ecc. si tratta di deviazione magnetica. Detta deviazione va compensata, da un esperto periodicamente, se non fosse sufficiente viene stilata una tabella delle deviazioni residue, propria di ogni barca. Essendo la terra un magnete è deviata anche da essa, si tratta della declinazione magnetica. Questa varia da luogo a luogo e di anno in anno. Queste indicazioni le troviamo sulla carta nautica della zona in cui stiamo navigando. Una bussola bellissima la si può vedere nelle barche d’epoca racchiusa in una colonnina in ottone e vetro detta chiesuola della bussola, affiancata da due sfere di ferro regolabili vicino e lontano x la deviazione magnetica di bordo.

La bussola è uno strumento per l’individuazione dei punti cardinali (nordsudest e ovest) sulla superficie terrestre e in atmosfera, a fini di orientamento e navigazione. È provvista di un ago magnetizzato che, libero di girare su un perno, ha la proprietà di allinearsi lungo le linee di forza del campo magnetico terrestre indicando così la direzione nordsud (entro i limiti d’errore dovuti alla declinazione magnetica).

Il suo uso è fondamentale in mare aperto, in vasti spazi, dove non ci siano punti di riferimento, così come in presenza di riferimenti per localizzarsi goniometricamente rispetto a essi (es. in orienteering). Utilizzata insieme ad un orologio e un sestante dà luogo ad un accuratissimo sistema di navigazione. Questo strumento ha migliorato la navigazione facilitando i commerci marittimi e i viaggi per mare rendendoli più sicuri ed efficienti.

(Luciano)

Ciao gruppo, in questi giorni durante la regata intorno al mondo si senteparlare dei 40 ruggenti e 50 urlanti, precisiamo che ci si riferisce alle latitudini a sud dell’ equatore, ovvero il quarantesimo e il cinquantesimo parallelo sud. Ruggenti e urlanti per via del rumore e frastuono del vento e del mare che si ode a quelle latitudini. Immaginate che devono scendere fino al sessantesimo parallelo x poter scapolare la punta estrema dell’America meridionale , il temibile Capo Horn, dall’oceano Atlantico passano all’oceano Pacifico, dove mare e vento con onde altissime è agitato x 360 giorni all’anno. Spero che questa semplice notizia faccia piacere a chi non lo sapeva.

P.s.da quando è stato aperto il canale di Panama la navigazione è più semplice!

L’espressione Quaranta ruggenti ( Roaring Forties) è stata coniata all’epoca dei grandi velieri che passavano per Capo Horn. Poiché la forza del vento aumenta procedendo verso sud, oltre il 50º parallelo gli stessi inglesi parlavano di Furious Fifties (che in italiano viene tradotto con Cinquanta urlanti).

Con Quaranta ruggenti e Cinquanta urlanti vengono convenzionalmente indicate in marineria due fasce di latitudini australi caratterizzate da forti venti provenienti dal settore ovest (predominanti), le quali si collocano rispettivamente tra il 40º e il 50º parallelo e tra il 50º e il 60º parallelo dell’emisfero meridionale. Tali venti hanno la stessa origine dei venti da ovest dell’emisfero settentrionale, ma la loro intensità è superiore di circa il 40 per cento: ciò è dovuto alla serie di intense depressioni che interessano queste zone, dovute all’incontro tra l’aria fredda dell’Antartide e l’aria calda proveniente dal centro degli oceani, inoltre questi venti sono amplificati dalla relativa scarsità di terre emerse nell’emisfero sud, cosicché soffiando sempre sul mare non incontrano mai terraferma che li potrebbe frenare.

La denominazione deriva dal nome dei paralleli alla cui latitudine soffiano questi venti: Quaranta o Cinquanta e dal rumore che il vento produce sibilando attraverso gli alberi, il sartiame e la velatura delle imbarcazioni a vela, che somiglia a un ruggito sui 40° e ad un grido sui 50°.

(luciano)

Bernard Moitessier.

Siamo al largo di Città del Capo, al centro del mare, in un pomeriggio soleggiato di Marzo del 1969. Un marinaio al lavoro su un cargo britannico sta distrattamente camminando sul ponte della nave, sicuramente con l’incombenza di svolgere una qualche mansione che, ai fini del nostro racconto, non è interessante riportare.

Con la calma di chi sa di non essere osservato, volge lo sguardo attorno a sé: si avvicina alla fine del ponte, guarda verso il mare aperto con curiosità. Prova a mettere a fuoco due volte, stropicciandosi gli occhi, come fanno i protagonisti dei cartoni animati quando cadono preda di allucinazioni: vicino alla gigantesca nave
sulla quale si trova si è appena affiancata una imbarcazione, per la verità neanche troppo in salute all’apparenza.

Sopra di questa, un uomo con la barba lunghissima appare in posa statuaria verso di lui, a maggior ragione se visto a distanza. Cerca di sforzare le sue capacità ottiche ulteriormente, e quella specie di pazzo trasandato sta effettivamente prendendo la mira verso di lui, verso il cargo, con una fionda. Al veder partire il lancio il marinaio di impulso si accoccola a terra, come si fa per evitare di entrar in contatto con un qualsiasi cosa potenzialmente atto ad offendere: che sia un sasso, che sia un proiettile, che sia un piombino.

A pochi metri da lui, invece, atterra un fagotto che a primissima vista sembra contenere un messaggio. Una comunicazione lanciata da quel pazzo, che adesso ha ripreso ad occuparsi delle sue cose di navigazione, ignorando la presenza del cargo, come se quel gigante ammasso di lamiera fosse sparito dal mare.
“Continuo senza scalo verso le isole del Pacifico perché sono felice in mare, e forse anche per salvare la mia anima” recita il messaggio firmato Bernard Moitessier.

Il marinaio sussulta per un attimo a leggere quel nome, e prontamente torna ad osservare il barbuto personaggio che, nel frattempo ha ripreso vento e velocità con la sua umilissima imbarcazione: quello è Bernard Moitessier, l’uomo in testa al Golden Globe Race, quella competizione partita da Plymouth quasi un anno prima, che prevedeva la circumnavigazione del globo in solitaria e senza scalo.
Inutile dire che, una volta trasmesso, quel messaggio del navigatore di origini francesi fece immediatamente il giro del mondo, ancor prima che lui completasse la manovra di tornare sui suoi passi, cambiando di direzione.

Pur senza giungere al traguardo, Bernard Moitessier completò ben più di un giro del globo senza scalo, attraccando a Tahiti qualche tempo dopo, perdendo così la leadership del gruppo in corsa e regalando di fatto le 5000 sterline di premio a Sir. Robin Knox-Johnson.
Ma per lui, ricordato da tutti come uno dei più grandi navigatori in solitaria di sempre, il mare era qualcosa di più di uno sfondo dove attuare una passione profonda. Per lui il mare era cura, era terapia, era comunione dei sensi, era pace interiore. Anche in mezzo alle tempeste, anche nelle difficoltà, anche con i
suoi pericoli e con la solitudine che porta con sé.

Moitessier quel giorno rifiutò la gloria di un’impresa riconosciuta, il denaro di una vittoria meritata, il completamento di quasi un anno di sacrifici, abbracciando la leggenda di chi – per salvare la sua anima – completò un giro e mezzo del globo senza scalo ed in solitaria, prima di fermarsi a riposare un po’ la mente.
A ricaricare le pile. A sconfiggere i propri demoni.

Bernard Moitessier nasce ad Hanoi (capitale del Vietnam), nel 1925. Figlio di genitori francesi, passa l’infanzia ipnotizzato dalla navigazione, costruendo piccole imbarcazioni a vele e sfidando pericoli già sufficientemente grandi per la sua età.
Nel 1947, violentemente attratto dal mare e dalla voglia di fuggire per conoscere il mondo, costruisce una piccola giunca e inizia a vagabondare per il golfo del Siam: abbandona il lavoro nell’azienda familiare, lasciandosi dietro tutto per rincorrere un desiderio di libertà già completamente chiarito nella sua mente.
Nel 1952 naufraga nelle Isole Chagos dopo aver sfidato in solitaria il Monsone dell’Oceano Indiano. Giunge così alle Mauritius senza un soldo e senza nessuna possibilità di rimettere in sesto la propria imbarcazione, cercando di sopravvivere al meglio che poteva, occupandosi di differenti lavori e vivendo sostanzialmente alla giornata.

Dopo aver praticato pesca subacquea, riesce ad ottenere un incarico da parte del Console Francese, sufficiente per poter iniziare a risparmiare i denari necessari da costruire la sua Marie Therese II (la prima era rimasta incagliata al suo arrivo in quelle terre), risalendo l’Atlantico, fermandosi in Sudafrica, prima di
naufragar nuovamente a causa di un suo colpo di sonno durante la conduzione.
I suoi diari di bordo si impreziosiscono di terminologie e soprattutto riflessioni, grazie all’avida lettura di poeti e scrittori come Charles Baudelaire, Antoine de Saint-Exupéry e Alberto Moravia, diventando progressivamente raccolta dei suoi pensieri personali, della sua filosofia di vita, della sua continua ricerca di un quid che potremo riassumere con la parola “libertà di anima”. Una ricerca ossessiva, che unita alla passione per la scrittura, lo renderà anche narratore leggendario delle proprie avventure: testimoniando eventi e dettagli capaci di far innamorare della navigazione gran parte dei suoi lettori futuri.

Dopo il secondo fallimento personale, si imbarca come mozzo in una nave mercantile che lo porterà per la prima volta nella terra natale dei suoi genitori, quella Francia dove decide di reinventarsi lavorando stabilmente, combattendo la depressione derivata dalla distanza dal mare ed il peso per i suoi sogni irrealizzati. In realtà Bernard cova dentro di sé il desiderio di costruire una barca in acciaio dove poter circumnavigare il globo, vivendo in mare: faticando, lavorando e risparmiando riesce così a dare alla luce Joshua, un’imbarcazione con la quale vivrà un rapporto morboso, umanizzato, profondo.

Malgrado tutto, riesce anche ad innamorarsi (e sposarsi) con Francoise de Cazalet, donna già madre di tre figli, che pensa bene di trascinar con sé in un viaggio incredibile, con l’evidente scusa del viaggio di nozze: i due navigano fino alla Polinesia, vivendo momenti epici durante il ritorno, in una traversata di 14.000 miglia senza scalo.
Da Tahiti fino ad Alicante passando per Capo Horn, alternandosi al timone ed affrontando una tempesta tremenda per la durata di sei giorni, una di quelle nel mezzo alle quali sembra impossibile riuscire a cavarne le penne, sconfiggendo onde di oltre 12 metri di altezza. Il racconto di questa avventura è racchiuso nel libro “Capo Horn alla vela”, scritto febbrilmente una volta tornato sulla terra ferma, con i piedi ben saldi ma la mente già capace di sognare la prossima impresa: quel viaggio intorno al mondo, possibilmente in solitaria, passando Capo Horn, Capo Leeuwin ed il Capo di Buona Speranza. Qualcosa di ben più dei 126 incredibili giorni in mare passati con la sua amata Francoise.

E l’occasione di presenta casualmente in modo ufficiale, sotto forma di competizione, per la quale il premio previsto sono 5.000 sterline al primo classificato. Nel 1968, infatti, uno dei principali giornali del Regno Unito, il Sunday Times, decide di organizzare la prima vera regata attorno al globo, ispirata dall’impresa di Sir Francis Charles Chichester ,che due anni prima aveva completato la circumnavigazione del globo con un solo scalo tecnico, in quel di Sidney.
Stavolta, però, le soste non sarebbero state ammesse: il passaggio in solitaria per i tre capi sarebbe dovuto svolgersi con partenza da Plymouth in Inghilterra, senza la concessione di nessuno scalo tecnico, in totale autosufficienza.
Moitessier – che aveva passato l’anno precedente a modificare ed attrezzare la sua Joshua per sostenere un viaggio simile – vacillò a lungo rispetto all’accettare o meno la sfida, temendo che la struttura competitiva avrebbe totalmente declassato l’impresa. Ma la posta in palio era comunque alta, e poteva coincidere con la realizzazione di un sogno che considerava la prova massima da superare per sé stesso: sarebbero stati lui e Joshua contro il mare e contro i loro limiti, e questo lo aveva già messo in conto.

Pensare di aggiungere alla lista degli avversari anche altri nove navigatori non mutò di troppo la sua percezione verso il tutto. Avrebbe partecipato alla Golden Globe Race organizzata dal Sunday Times per sé stesso, non certo per una gloria mediatica mondiale. Non ne aveva bisogno.
Tuttavia Bernard Moitessier raggiunse la testa della competizione in modo piuttosto rapido e naturale. Quel Sir Robin Knox-Johnson che guidava la competizione venne superato, pur essendo partito con un mese di anticipo e, con tutto il mondo che seguiva la cavalcata di Moitessier verso la vittoria ed il rientro in Gran Bretagna, la sua convinzione nel portare a termine la tanto desiderata impresa, vacillò definitivamente.

Fu così che decise di ritirarsi dalla Golden Globe Race, lanciando il famoso messaggio su quel cargo Britannico praticamente affiancato, facendo dietro front e proseguendo navigando in solitudine e senza sosta.
Knox vinse la competizione portandosi a casa il premio e scrivendo il suo nome nella storia, ma Bernard Moitessier tornò sui suoi passi dopo aver sostanzialmente completato il giro del globo, quasi giunto al traguardo. Proseguì per un’altra metà, completando praticamente un giro e mezzo, stavolta in cerca di sé stesso, con la sola compagnia della sua fedele Joshua.

Era partito da Plymouth il 22 Agosto del 1968 e giunse nuovamente a Tahiti il 21 Giugno del 1969, dopo aver percorso 37.455 miglia (69.367 km), con l’intento di “salvare la sua anima”. La sua vita sarebbe definitivamente cambiata con quella decisione, o quantomeno avrebbe virato in una direzione definitivamente leggendaria, considerando che il racconto di questa incredibile avventura sarebbe divenuto il suo libro più letto, “La Lunga Rotta”, responsabile di innamoramenti per il mare e per la navigazione di intere generazioni future.
Bernard Moitessier era un vagabondo dei mari, privo di qualsiasi tipo di timore relativo alle distanze, alle condizioni atmosferiche, alla solitudine. Un uomo che desiderava mettere alla prova sé stesso sfidando il destino e la natura, forte solo delle sue possibilità e delle sue potenzialità. Con la sola forza d’animo come alleata, con quel fuoco agonistico che ritroviamo nelle storie dei più grandi atleti di tutti gli sport, seppur in questo caso si trattasse di competizione contro qualcosa di più grande, di complicato da sfidare, come la propria anima.

Joshua venne sorpreso da un improvviso ciclone mentre era ormeggiato di fronte alla costa messicana, durante un periodo passato in California da Moitessier: si arenò sulla spiaggia praticamente distrutto, ed il suo fedele amico, nonché costruttore, non aveva le possibilità economiche per ridargli vita. Decise di regalarlo a due sconosciuti, che lo aiutarono nel liberarla dalla sabbia che ne aveva invaso la struttura. Oggi si trova ristrutturato ed esposto nel Museo Navale de La Rochelle, in una piazza che ha preso il nome proprio di Bernard Moitessier.

Venne sostituito negli anni da un’altra barca, Tamata, con la quale Bernard proseguì vagabondando per i mari e scappando da una fama che lo aveva già eletto a leggenda, molto tempo prima che fosse costretto dalla vita ad andarsene. Divenne fermo sostenitore del disarmo nucleare, appoggiando battaglie ecologiste e proseguendo a sfidare giganteschi mulini a vento come se fosse un Don Chisciotte profondamente visionario, ma concreto nell’effettiva capacita di raggiungere sempre la meta prefissata. Nel riuscire a vincere a più riprese la sfida con il suo lato oscuro, proiettato in quel mare con il quale aveva convissuto fino alla fine.
Nel 1989, però, dovette inchinarsi all’inevitabile, definito da lui “la Bestia”: un cancro alla prostata che, seppur non troppo rapidamente, iniziò a divorarlo dall’interno, decretando una dipartita che avvenne stavolta a Parigi il 16 Giugno del 1994.

Le sue riflessioni, i suoi racconti, le sue parole sapientemente trascritte in una serie di opere letterarie di estrema diffusione e successo, sono riuscite a tramandare l’essenza interiore di un uomo comunque schivo, capace di superare limiti a tratti neanche disegnabili, per sola ed unica sfida con sé stesso.
La domanda che sorge spontanea rileggendone le gesta è se sia da considerarsi più un grande navigatore o un grande scrittore, ma all’apparenza si tratta di una questione inutile. Anche perché le due cose hanno strettamente contribuito a costruire una leggenda unica, destinata a resistere per sempre. Una leggenda
per la quale, forse, è lecito ricordare Bernard Moitessier come il più grande navigatore di tutti i tempi, riuscendo così anche – ed in conclusione – a rispondere a questo quesito conclusivo.

Il bompresso, si divide in tre tronconi : 1 bompresso, 2 asta di fiocco 3 asta di controfiocco. I bompressi di adesso sono e si chiamano: buttafuori del gennacher. ( Luciano )